Franchising, retail, business
18/11/2014
Da Colao (Vodafone) a Maestri (Apple), da Andreotti (Bms) a Freda (EL). Cresce la forza della squadra tricolore. «Allenata» dalle difficoltà di casa
Se si scorre la classifica di Forbes delle maggiori società quotate mondiali si vede che, esclusi i gruppi asiatici, negli altri il «tasso di italianità» è alto. Non come aziende, visto che la prima è l’Eni al 39esimo posto (e la seconda è l’Enel, 71esima), ma nel management. Dieci delle prime 51 società (escludendo l’Eni) hanno nei loro vertici massimi almeno un manager nato in Italia. In alcuni casi, come Vodafone, si tratta del capo mondiale.
Rapportato alla popolazione italiana, non è poco. E non è poco soprattutto rapportato alla situazione economica del nostro Paese dove da tre anni il Pil (Prodotto interno lordo) è in regressione, essendo tornato ai livelli di 14 anni fa, cioè del 2000, come ha certificato l’Istat venerdì scorso. Nell’intervista in pagina Michele Scannavini, per 12 anni amministratore delegato del gruppo di profumi Coty, si domanda perché «non siamo capaci di richiamare queste persone per far crescere il sistema italiano?».
I nomi
Nel grafico e nelle foto di queste due pagine abbiamo messo alcuni dei nomi più significativi, per dare il senso del fenomeno. Un’analisi, realizzata da Kpmg per CorrierEconomia su 22 top manager italiani a capo di società o di grandi divisioni di multinazionali, dice che da soli questi 22 professionisti sono impegnati in gruppi che, messi tutti insieme, hanno ricavi per oltre 1.100 miliardi di euro, utili netti per 117 miliardi e oltre 2,7 milioni di dipendenti.
Oltre ai top manager indicati nel grafico e nelle foto in pagina, sono state prese in considerazione anche le società StMicroelectronics dove Carlo Bozotti è President and Chief Executive Officer; Omd Worldwide Group, il cui Ceo è Mainardo de Nardis; Schroders con Massimo Tosato, executive Vice-Chairman e Global Head of Distribution; Citigroup, dove Francesco Vanni D’Archirafi è Ceo della divisione Citi Holdings; e Axa Investments, il cui Ceo è Andrea Rossi. Molto presente la modalusso. Quanto alle nazionalità dei gruppi «accoglienti» sono soprattutto americani, francesi e tedeschi.
«In questi anni, spesso sottotraccia, si è affermata una pattuglia consistente di manager italiani chiamati alla guida di grandi gruppi multinazionali. Non so se si possa parlare di un modello italiano di management, ma certamente il nostro atteggiamento pragmatico, flessibile ed eclettico e in grado di garantire il dialogo è molto apprezzato in contesti multiculturali — dice Michele Parisatto, managing partner Kpmp Advisory —. Ormai i manager italiani parlano lo stesso linguaggio del mondo manageriale anglosassone, ma sono percepiti come meno aggressivi e spesso sono portatori di una visione di medio-lungo termine che contrasta con un certo shortismo da trimestrali tipico del capitalismo finanziario. Molti di questi professionisti — prosegue Parisatto nel suo ragionamento — sono partiti da un background nazionale, per essere poi proiettati su dimensioni globali. In futuro chi vorrà ambire a questi ruoli dovrà puntare fin dall’inizio della carriera su percorsi internazionali, sia come studi sia come esperienza professionale, sia pure senza perdere la propria identità culturale di fondo».
Le caratteristiche
«Direi che la caratteristica principale dei manager italiani è l’abitudine ad affrontare le difficoltà — dice Gianluca Raisoni, consulente della società di executive search Spencer Stuart —. Un professionista allenato a gestire complessità come il nostro sistema burocratico o la non efficienza del nostro sistema infrastrutturale sviluppa “muscoli tonici” che hanno la possibilità di valorizzarsi in ruoli internazionali e in Paesi importanti. D’altra parte, l’Italia non potrebbe continuare a essere tra le prime potenze mondiali se non ci fosse una profonda salubrità della classe dirigenziale. E questo lo dobbiamo alla grande volontà di risultato dei manager; e anche alle nostre scuole, forse meno blasonate dell’Insead o di Harvard, ma che certamente qualificano le persone in modo importante».
Un altro elemento che Raisoni sottolinea è che «le nuove generazioni di manager, i quarantenni di adesso, hanno sicuramente una maggior apertura di coloro che hanno solo dieci anni di più e questo li porta alla ricerca di un’esperienza internazionale fin dall’inizio ». Parole confermate da una ricerca realizzata lo scorso anno da Manageritalia e Kilpratick, a cura di AstraRicerche, intitolata «La fuga dei talenti: i manager italiani espatriati». «I nostri manager — dice lo studio — sono volutamente andati a lavorare all’estero (93% dei casi)» perché ci sono «possibilità professionali più stimolanti di quelle presenti in Italia, per voglia di un’esperienza internazionale e come passaggio obbligato per fare carriera in azienda». Sono generalmente giovani: solo il 13% ha più di 50 anni.
La soddisfazione della scelta è — così la definisce l’analisi — «plebiscitaria». Soprattutto perché si lavora e si fa carriera per merito. E questo vale anche, forse soprattutto, per le donne. Come si vede dall’illustrazione le manager italiane a essere arrivate ai vertici delle multinazionali sono quasi inesistenti. «La parità è ancora lontana dall’essere raggiunta, ma la situazione è già molto differente rispetto a dieci anni fa — conclude Raisoni —. Ci vorranno forse un paio di generazioni, una quindicina d’anni, perché cresca la generazione di giovani manager donna, ma è un movimento in corso e sono ottimista».
Fonte:http://www.corriere.it/economia/finanza_e_risparmio/notizie/manager-italiani-mappa-cervelli-aziendali-all-estero-d000b7de-6f07-11e4-a038-d659db30b64c.shtml