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RAPPORTO CENSIS 2014: italiani temono la povertà

Italia Bandiera

15/12/2014
Una società satura dal capitale inagito, rischio deflazione delle aspettative.
Desideri sospesi per famiglie e imprese. Contante, soldi fermi sui conti correnti e ri-sommersione nel nero come strategie adattative di fronte all’incertezza. Investimenti ai minimi dal dopoguerra, ma crescono patrimonio e liquidità delle imprese che ce l’hanno fatta. È l’Italia del «bado solo a me stesso»

L’attendismo cinico delle famiglie liquide. Dopo la paura della crisi, è un approccio attendista alla vita che si va imponendo tra gli italiani. Si fa strada la convinzione che il picco negativo della crisi sia alle spalle: lo pensa il 47% degli italiani, il 12% in più rispetto all’anno scorso. Ma ora è l’incertezza a prevalere. Di conseguenza, la gestione dei soldi da parte delle famiglie è fatta di breve e brevissimo periodo. Tra il 2007 e il 2013 tutte le voci delle attività finanziarie delle famiglie sono diminuite, tranne i contanti e i depositi bancari, aumentati in termini reali del 4,9%, arrivando a costituire il 30,9% del totale (erano il 27,3% nel 2007). A giugno 2014 questa massa finanziaria liquida è cresciuta ancora, fino a 1.219 miliardi di euro. Prevale un cash di tutela, con il 45% delle famiglie che destina il proprio risparmio alla copertura da possibili imprevisti, come la perdita del lavoro o la malattia, e il 36% che lo finalizza alla voglia di sentirsi con le spalle coperte. La parola d’ordine è: tenere i soldi vicini per ogni evenienza, «pronto cassa». La percezione di vulnerabilità porta il 60% degli italiani a ritenere che a chiunque possa capitare di finire in povertà, come fosse un virus che può contagiare chiunque. La gestione del contante è una strategia di risposta adattativa di fronte all’incertezza. Pensando al futuro, il 29% degli italiani prova ansia perché non ha una rete di protezione, il 29% è inquieto perché ha un retroterra fragile, il 24% dice di non avere le idee chiare perché tutto è molto incerto, e solo poco più del 17% dichiara di sentirsi abbastanza sicuro e con le spalle coperte. Tra i giovani (18-34 anni) sale al 43% la quota di chi si sente inquieto e con un retroterra fragile, e scende ad appena il 12% la quota di chi si sente al sicuro. E il cash è anche carburante dell’informale, del nero, del sommerso, per creare reddito non tassato e abbattere i costi. L’attendismo cinico degli italiani si alimenta anche della convinzione che in fondo ci sono alcune invarianti nei processi sociali che con la crisi finiscono per patologizzarsi. Tra i fattori più importanti per riuscire nella vita, il 51% richiama una buona istruzione e il 43% il lavoro duro, ma per entrambe le variabili la percentuale italiana è inferiore alla media europea, pari rispettivamente al 63% per l’istruzione (82% in Germania) e al 46% per il lavoro sodo (74% nel Regno Unito). In Italia risultano molto più alte le percentuali di chi è convinto che servono le conoscenze giuste (il 29% contro il 19% inglese) e il fatto di provenire da una famiglia benestante (il 20% contro il 5% francese). Il riferimento all’intelligenza come fattore determinante per l’ascesa sociale raccoglie il 7% delle risposte in Italia: il valore più basso in tutta l’Unione europea.
L’atonia del grande capitalismo (e la rivincita dell’economia di territorio). Dal 2008 si è registrata una flessione degli investimenti di circa un quarto. Si sono ridotti gli investimenti in hardware (-28,8%), costruzioni (-26,9%), mezzi di trasporto (-26,1%), macchinari e attrezzature (-22,9%). Se si prende a riferimento il 2007, si può dire che da allora fino al 2013 c’è stata una mancata spesa cumulata anno dopo anno per investimenti superiore a 333 miliardi di euro (più di quanto previsto dal piano Juncker). L’incidenza degli investimenti fissi lordi sul Pil si è ridotta al 17,8%: il minimo dal dopoguerra (16,4% nel 1947, 17,3% nel 1948, poi 19,1% nel 1949). Ma a una così accentuata flessione delle spese produttive, determinata dalla recessione e dalle aspettative negative, non ha corrisposto un analogo peggioramento dei conti delle imprese che ce l’hanno fatta. Dal 2008 a oggi il margine operativo lordo delle imprese si è mantenuto elevato e a tratti crescente. Il patrimonio netto delle imprese è aumentato negli anni della crisi arrivando a pesare nel 2013 5,8 volte l’ammontare degli investimenti effettuati. Questa discrasia tra risorse disponibili e ciclo declinante delle spese produttive non ha precedenti e appare inutile cercarne le cause nel razionamento del credito, visto che è in calo la stessa domanda di provvista finanziaria, mentre cresce la liquidità delle imprese (circolante e depositi). Le risorse liquide disponibili sono passate dai 238 miliardi di euro del 2008 ai 279 miliardi del 2013 (+17,3%). Se il grande capitalismo familiare italiano appare quasi sotto assedio, con molti marchi ceduti ad aziende straniere e fasi travagliate di ridefinizione della governance interna, resta una carta vincente per il Paese il microcapitalismo di territorio. Ancora nel primo semestre del 2014 le esportazioni degli oltre 100 distretti industriali (che contribuiscono per più di un quarto del valore aggiunto manifatturiero del Paese) sono cresciute del 4,2%, in termini tendenziali, a fronte di un incremento dell’1,2% dell’export manifatturiero complessivo.
La dissipazione del capitale umano che non si trasforma in energia lavorativa. Siamo un Paese dal capitale inagito anche perché non riusciamo ancora a ottimizzare i nostri talenti.Agli oltre 3 milioni di disoccupati si sommano quasi 1,8 milioni di inattivi perché scoraggiati. E ci sono 3 milioni di persone che, pur non cercando attivamente un impiego, sarebbero disponibili a lavorare. È un capitale umano non utilizzato di quasi 8 milioni di individui. Più penalizzati sono i giovani. I 15-34enni costituiscono il 50,9% dei disoccupati totali. E i Neet, cioè i 15-29enni che non sono impegnati in percorsi di istruzione o formazione, non hanno un impiego né lo cercano, sono in continua crescita: da 1.832.000 nel 2007 a 2.435.000 nel 2013. C’è poi il capitale umano sottoutilizzato, composto dagli occupati part time involontari (2,5 milioni nel 2013, raddoppiati rispetto al 2007) e dagli occupati in Cassa integrazione, il cui numero di ore è passato nel periodo 2007-2013 da poco più di 184.000 a quasi 1,2 milioni, corrispondenti a 240.000 lavoratori sottoutilizzati. E c’è anche il capitale umano sottoinquadrato, cioè persone che ricoprono posizioni lavorative per le quali sarebbe sufficiente un titolo di studio inferiore a quello posseduto: sono più di 4 milioni di lavoratori, il 19,5% degli occupati. Il fenomeno dell’overeducation riguarda anche i laureati in scienze economiche e statistiche (il 57,3%) e persino un ingegnere su tre.
Il patrimonio culturale che non produce valore. Siamo un Paese dal capitale inagito anche perché l’Italia riesce solo in minima parte a mettere a valore il ricco patrimonio culturale di cui dispone. Il numero di lavoratori nel settore della cultura (304.000, l’1,3% degli occupati totali) è meno della metà di quello di Regno Unito (755.000) e Germania (670.000), e di gran lunga inferiore rispetto a Francia (556.000) e Spagna (409.000). Nel 2013 il settore ha prodotto un valore aggiunto di 15,5 miliardi di euro (solo l’1,1% del totale del Paese) contro i 35 miliardi della Germania e i 27 della Francia. E mentre le principali economie europee hanno registrato dal 2007 un significativo sviluppo del settore, da noi la situazione è inversa: -1,6% tra il 2007 e il 2013 in termini di valore aggiunto (contro il +4,8% della Germania e il +9,2% della Francia) e +3,3% in termini occupazionali (contro il +10,9% della Germania e il +6,3% della Francia).
La solitudine dei soggetti: i dispositivi di introflessione di un popolo di singoli narcisisti e indistinti. La estraneità dei soggetti alle dinamiche di sistema risalta nel rapporto con i media digitali personali. A fronte del 63,5% di italiani che utilizzano internet, gli utenti dei social network sono il 49% della popolazione e arrivano all’80% tra i più giovani di 14-29 anni. Tra il 2009 e il 2014 gli utenti di Facebook 36-45enni sono aumentati del 153% e gli over 55 del 405%. Gli utenti italiani di Instagram sono circa 4 milioni. Delle 4,7 ore al giorno trascorse mediamente sul web, 2 sono dedicate ai social network. E il numero di chi accede a internet tramite telefono cellulare in un giorno medio (7,4 milioni di persone) è ormai più alto di quanti accedono solo da pc (5,3 milioni) o da entrambi (7,2 milioni). La pratica diffusa del selfie è l’evidenza fenomenologica della concezione dei media come specchi introflessi in cui riflettersi narcisisticamente, piuttosto che strumenti attraverso i quali scoprire il mondo e relazionarsi con l’altro da sé. Non è contraddittorio quindi il dato che emerge da una rilevazione del Censis secondo cui la solitudine è oggi una componente strutturale della vita delle persone: il 47% degli italiani dichiara di rimanere solo durante il giorno per una media quotidiana di solitudine pari a 5 ore e 10 minuti. È come se ogni italiano vivesse in media 78 giorni di isolamento in un anno, senza la presenza fisica di alcuna altra persona.
Il bypass dei corpi intermedi. Dall’autunno 2011 è partita una stagione di riforme che ha portato a 86 decreti approvati dal Consiglio dei ministri e presentati al Parlamento per la conversione in legge. Di questi, 72 sono stati convertiti in legge, 6 sono confluiti in altri provvedimenti e 3 sono in corso di conversione (a ottobre 2014). Per i 72 decreti, in sede di conversione in legge sono state introdotte oltre 1.300 modifiche e il testo in vigore corrisponde a un volume di circa 1,2 milioni di parole, vale a dire 11,6 volte la Divina Commedia di Dante. La trappola della promessa che non si traduce in processi reali (amministrativi, economici, sociali), il ricorso alla decretazione, l’aggiramento da parte della politica dei corpi intermedi e il parlare direttamente ai cittadini non hanno però portato al decollo dello sviluppo e dell’occupazione.
Le scissioni territoriali e sociali che corrodono il ceto medio. Negli anni della crisi le disuguaglianze sociali si sono ampliate, il ceto medio si è indebolito, le opportunità di integrazione sono diminuite. È grave lo slittamento verso il basso delle grandi città del Sud. Il tasso di occupazione dei 25-34enni oscilla tra il 34,2% di Napoli e il 79,3% di Bologna, la quota di persone con titolo di studio universitario passa dall’11,1% di Catania al 20,9% di Milano, gli evasori del canone Rai sono il 58,9% a Napoli ma diminuiscono al 26,8% a Roma, a Bari solo 2,8 bambini di 0-2 anni ogni 100 sono presi in carico dai servizi comunali per l’infanzia contro i 36,7 di Bologna, a Palermo ci sono appena 3,4 mq per abitante di verde urbano rispetto ai 22,5 bolognesi, la percentuale di raccolta differenziata dei rifiuti si ferma al 10,6% nel capoluogo siciliano mentre arriva al 38,2% nel capoluogo lombardo. Per un Paese come l’Italia, che ha fatto della coesione sociale un valore centrale e che si è spesso ritenuto indenne dai rischi connessi alle fratture sociali che si ritrovano nelle banlieue parigine o nei quartieri degradati della inner London, le problematicità ormai incancrenite di alcune zone urbane ad elevato degrado non possono essere ridotte a una semplice eccezione alla regola del «buon vivere».
L’adattamento interstiziale degli immigrati. Gli immigrati imprenditori continuano a mostrare segnali di vitalità. Nei sette anni della crisi, le imprese con titolare extracomunitario sono aumentate del 31,4%, mentre quelle gestite da italiani sono diminuite del 10%. Sono due i settori in cui gli stranieri stanno esercitando maggiormente la loro capacità di fare mixité di prossimità tra la propria cultura e la nostra: il commercio e l’artigianato. Le imprese di commercio al dettaglio gestite da stranieri sono complessivamente 125.965, rappresentano il 15% del totale e sono cresciute del 13,4% dal 2011 a oggi, mentre quelle italiane si riducevano del 2,4%. L’incremento più forte (+33,9%) riguarda i negozi di frutta e verdura, che a fine 2013 rappresentavano il 10% del totale. E nell’ambulantato gli stranieri sono passati dalle 73.959 imprese del 2011 alle 85.461 del 2013 (+15,6%) e rappresentano oggi il 46,8% del totale. Nel 2013 le imprese artigiane straniere erano 175.039, il 12,4% del totale, con una crescita del 2,9% negli ultimi due anni, quando le imprese italiane sono calate del 4,5%. Nei lavori di costruzione e rifinitura degli edifici gli stranieri rappresentano ormai il 21,3% del totale delle imprese.
L’Italia fuori dall’Italia: il rischio di stare ai margini dell’economia mondiale dei flussi. Nel periodo precedente all’esplosione delle turbolenze finanziarie, i flussi in entrata di investimenti diretti esteri si erano attestati su un livello superiore ai 30 miliardi di euro all’anno. Dopo il modestissimo dato del 2012 (appena 72 milioni di euro), nel 2013 sono stati pari a 12,4 miliardi. È diminuita la nostra capacità di attrarre capitali stranieri. Rispetto al 2007, l’anno prima dell’inizio della crisi, quegli investimenti che potrebbero rilanciare la crescita e favorire l’occupazione sono diminuiti di circa il 60%. Pesa un deficit reputazionale dovuto soprattutto allo svantaggio competitivo rappresentato dalle lungaggini delle procedure autorizzative per ottenere permessi e concessioni, e dalle lungaggini della giustizia civile quando si tratta di far valere un contratto commerciale. Il nostro Paese detiene solo l’1,6% dello stock mondiale di investimenti esteri, contro il 2,8% della Spagna, il 3,3% della Germania, il 4,2% della Francia, il 6,3% del Regno Unito. L’intensificazione degli scambi e dei flussi viaggia anche attraverso l’integrazione di internet. Ma su un totale di oltre 31.000 gigabyte per secondo che transitano su internet, solo il 2,5% è riconducibile al traffico di matrice italiana.
La separatezza dai poteri reali in Europa. Gli italiani si fidano poco dei poteri europei. Il 33% ha fiducia nel Parlamento europeo (37% media Ue), il 28% nella Commissione europea (32% media Ue), il 22% nella Banca centrale europea (31% media Ue). Il 64% degli italiani percepisce l’Unione come burocratica, il 57% la considera lontana, solo il 33% pensa sia efficiente e il 29% (contro il 45% medio europeo) vede nell’Unione un fattore di protezione rispetto a condizioni di crisi e disagio. E mentre il 42% degli europei pensa che la propria voce conti in Europa, la percentuale scende al 19% tra gli italiani. Il nostro Paese pesa per il 12% in termini di popolazione sul totale dell’Unione a 28 Stati, ma nella mappa delle principali istituzioni europee gli italiani che oggi occupano posizioni di vertice sono 178 su 2.242 (l’8% del totale). Su 700 lobby attive in ambito finanziario a Bruxelles, più di 140 sono riconducibili al Regno Unito, seguono Germania, Francia e Stati Uniti, mentre solo 30 organizzazioni sono italiane, a dimostrazione della nostra scarsa capacità di incidere nelle sedi strategiche di decisione.
L’Italian way of life: cosa piace di noi all’estero. L’interesse suscitato all’estero dall’Italia, sebbene non adeguatamente sfruttato, non conosce crisi. Siamo la quinta destinazione turistica al mondo, con 186,1 milioni di presenze turistiche straniere nel 2013 e 20,7 miliardi di euro spesi (+6,8% rispetto al 2012). L’export delle 4 A del made in Italy (alimentari, abbigliamento, arredo-casa e automazione) è aumentato del 30,1% in termini nominali tra il 2009 e il 2013. Sempre più persone parlano la nostra lingua: circa 200 milioni nel mondo. E crescono le reti di aziende italiane in franchising all’estero: 149 reti nel 2013 per un totale di 7.731 punti vendita (+5,3% rispetto al 2011).
Il soft power dell’enogastronomia nazionale che conquista le culture globali. Il successo di cibo e vini italiani nel mondo è uno degli indicatori più significativi del fortissimo appeal del nostro stile di vita. L’Italian food, inteso come rapporto con il territorio, autenticità, qualità, sostenibilità, è uno straordinario ambasciatore del nostro Paese nel mondo globalizzato. Il made in Italy agroalimentare è una delle componenti più dinamiche dell’export: 27,4 miliardi di euro nel 2013, con un aumento del 26,9% rispetto al 2007. L’Italia è il Paese con il più alto numero di alimenti a denominazione o indicazione di origine (266), seguito a distanza da Francia (219) e Spagna (179). Così il nostro Paese sta riuscendo a conquistare, con logica da soft power, cuori, menti e portafogli dei cittadini a livello globale.

Fonte:http://finanzaemercati.org/2014/12/14/rapporto-censis-2014-italiani-temono-la-poverta/

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