Franchising, retail, business
26/07/2015
Negli Stati Uniti stanno cercando di capire perché alcuni distretti del Nord-Est sono leader mondiali e altri in rovina. La chiave? Le aziende leader
«La globalizzazione non ha ucciso i distretti industriali». L’affermazione è forte ma autorevole: arriva dalla rivista dell’Harvard Business Review, che per dimostrarla ha deciso di studiare un territorio per loro lontano, ma che noi conosciamo bene, il Nord-Est italiano.
Non per farne un quadro idilliaco, ma per dimostrare quanto sia sottile il crinale che separa il successo dalla desertificazione industriale. Una discriminazione che non passa semplicemente dal puntare sul lusso invece che sui prodotti di massa; né dalla semplice innovazione. Quanto, piuttosto, dal ruolo delle aziende guida, che se riescono a usare le conoscenze “tacite” delle piccole imprese fornitrici e a metterle in contatto diretto con i mercati e i designer internazionali, possono salvare un intero territorio. Per riuscirci hanno però bisogno di una classe dirigente ben più attrezzata di quella attuale.
Vincitori e vinti
L’interesse degli studiosi americani verso i distretti italiani non è certo una novità. Era il 1984 quando due studiosi americani, Michael Piore e Charles Sabel del Mit di Boston, passarono diversi mesi in Italia e scrissero “The Second Industrial Divide”, rimasta una delle pietre miliari sulla materia. Questa volta ad accendere i riflettori sono Gary Pisano e Giulio Buciuni. Il primo, professore ad Harvard, ha scritto il libro “Producing Prosperity: Why America Needs a Manufacturing Renaissance”, che è diventato un punto di riferimento nel dibattito americano sulla de-industrializzazione. Il secondo è un ricercatore dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, in procinto di trasferirsi all’Università di Toronto.
«Il Nord-Est è un laboratorio ideale per la ricerca: un territorio limitato in cui si possono osservare le aziende, le istituzioni e le infrastrutture», spiega a Linkiesta Giulio Buciuni. Nel Nord-Est, come noto, la crisi ha picchiato più forte che altrove, tanto che il mito dei distretti industriali si è andato appannando. «Molti colleghi pensano che siano morti, ma sbagliano. Non è un caso che Harvard ci abbia chiesto di studiarli».
Quello che soprattutto andava spiegato è perché diversi attivi in comparti molto simili e a poca distanza gli uni dagli altri abbiano performance così diverse.
Prendiamo il comparto delle calzature. Da una parte c’è il distretto di Montebelluna (Treviso), dall’altra quello della Riviera del Brenta. A Montebelluna c’è un cluster di aziende specializzate nelle scarpe sportive e negli scarponi da sci. Il distretto ha origini nell’Ottocento, quando artigiani locali cominciarono a fabbricare scarponi da montagna. In seguito si sviluppò con la produzione di scarponi da sci e scarpe sportive e attirò gli investimenti di grandi marchi mondiali come Nike e Nordica, che si sommarono a marchi locali come Lotto. Le principali società mondiali, racconta lo studio, cominciarono a delocalizzare la produzione in Paesi come la Romania e la Cina, separando la ricerca e sviluppo dalla produzione. I modelli venivano creati in zona, ma le fabbriche si spostavano, con il risultato che l’occupazione tra il 2006 e il 2012 è scesa del 15 per cento.
Una traiettoria molto diversa è quella seguita dal distretto della Riviera del Brenta (in provincia di Venezia), specializzato nella produzione di scarpe da donna di lusso (circa 500 euro a paio). Anche in questo caso l’origine del distretto risale all’Ottocento, ma nella zona la produzione è rimasta e grandi marchi di moda hanno effettuato ingenti investimenti, da Armani a Prada, da Lvmh a Dior.
Se si passa al settore dei mobili, la differenza tra la coppia di distretti presa in considerazione è ancora più evidente. Il distretto di Manzano (Udine) era il centro del mondo delle sedie in legno: negli anni Novanta vi ci si produceva un terzo di tutte le sedie che venivano vendute nel mondo. A pochi anni di distanza, non rimane praticamente più produzione. Solo una grande azienda, la Calligaris, ha avuto successo nell’integrarsi a valle, creando una rete globale di showroom e accordi di distribuzione. Per il resto basta un dato a far capire lo stato di salute del distretto: i lavoratori dal 2006 al 2012 sono scesi del 44 per cento.
A 60 chilometri di distanza, il distretto di Livenza, al confine tra Treviso e Pordenone, sta reagendo alla crisi ed è diventato il principale fornitore europeo di Ikea. L’azienda principale, Friul Intagli, ha visto crescere il fatturato dai 20 milioni di euro del 1997 agli oltre 400 milioni di oggi.
Il knowledge integrator
Com’è possibile una tale differenza tra distretti che sarebbero indistinguibili se ci basasse sui codici Ateco dell’Istat? La chiave sta proprio nel ruolo delle aziende leader, che lo studio chiama «knowledge integrator», ossia integratori di conoscenza. «Le competenze manifatturiere sono condizioni necessarie ma non sufficienti - spiega Buciuni -. Innovare non può prescindere da un presidio diretto del mercato globale». È qui che entra in azione l’azienda leader, capace di recepire gli input internazionali e poi di fare leva sulla specializzazione produttiva delle aziende locali e sulla loro capacità di trovare soluzioni innovative, «che è il grande valore aggiunto, ancora attuale, della manifattura italiana», aggiunge Buciuni.
Il caso di Livenza chiarisce di cosa si sta parlando. «Friul Intagli riesce a dialogare con Ikea senza mediazioni. Ogni volta che la multinazionale svedese ha necessità di sviluppare un nuovo prodotto, viene a Pordenone. Friul Intagli riceve l’input su un prodotto e lo sviluppa, anche dialogando con i produttori locali. In seguito, cosa importante, lo industrializza». Ma non finisce qui. «Dopo 2-3 anni, una volta che la produzione è avviata, Ikea sposta la produzione in Polonia o in altri Paesi, perché ha come politica quella di abbassare continuamente i prezzi dei prodotti». Il distretto tra Veneto e Friuli deve quindi continuare a innovare, come un ciclista che non può mai smettere di pedalare per non cadere.
Fonte:http://www.linkiesta.it/harvard-studia-distretti-italiani-nord-est