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In Italia pochi laureati, tanti disoccupati che non si formano. L’Ocse: «Stringere i legami con il lavoro»

01universita master studenti

24/11/2015
Pochi laureati e sempre più “Neet”, giovani disoccupati che non sono neanche in un percorso di formazione. L’università che non garantisce lavoro attrae poco i giovani italiani che vanno ad ingrossare le fila degli inattivi.

È una fotografia a tinte fosche per il nostro paese quella che l’Ocse scatta nel rapporto “Education at a glance” che ogni anno mette sotto esame i sistemi scolastici dei 34 Paesi membri.
Il quadro dell’università italiana è atipico e per certi versi paradossale. Il dato di fondo sono le carenze sotto il profilo della professionalizzazione, anche se - riconosce l’Ocse - «negli ultimi anni l’Italia ha compiuto progressi importanti per creare programmi di istruzione terziaria che preparino gli studenti a un rapido ingresso nel mondo del lavoro», creando gli istituti tecnici superiori e la raccomandazione è di “rafforzare questo tipo di programmi». Che finora, per la verità, hanno scarso appeal. Nella Penisola solo lo 0,2% degli studenti eèiscritta a un ciclo terziario breve professionalizzante (questa la dizione tecnica) contro l'11% Ocse. Se si passa alla laurea di primo livello la percentuale italiana si ferma al 28% contro il 36% Ocse. La situazione cambia per la laurea specialistica con un 20% italiano contro il 17% Ocse, indicativo forse del fatto che da noi, comunque, la “triennale non basta”.
Nell'insieme, secondo i calcoli dell'Ocse, solo il 42% dei giovani italiani si iscrive a un programma d'istruzione terziaria (terzultimo posto nell'Ocse) e solo il 34% dovrebbe conseguire un diploma d'istruzione terziaria contro il 50% medio Ocse (penultimo posto davanti al Lussemburgo). «L'Italia si sta muovendo per colmare il divario. C’è uno sforzo politico, che riconosce problemi giusti ma si muove lentamente» commenta a Radiocor Francesco Avvisati, senior analyst dell'Ocse per l'istruzione, tra gli autori del rapporto.
La laurea non paga come altrove
Sul mercato del lavoro, del resto, la laurea non brilla. Nel 2014, solo il 62% dei laureati tra 25 e 34 anni era occupato in Italia, 5 punti in meno rispetto al 2010, il livello più basso nell'Ocse (media 82%). Italia e Repubblica Ceca sono i soli Paesi con un tasso di occupazione dei 25-34enni minore tra i laureati rispetto ai diplomati (63%). L'occupazione è particolarmente bassa tra i laureati di prima generazione: è inferiore di 12 punti rispetto ai laureati con genitori laureati contro la media Ocse di 2 punti. Insomma, come sintetizza Avvisati, in Italia «pesano sempre le reti informali» legate alla famiglia per trovare lavoro.
Anche i laureati italiani possono contare su redditi da lavoro più alti rispetto ai lavoratori meno istruiti, ma la laurea “paga” meno rispetto ad altrove: il 143% rispetto al 100% del diploma secondario contro il 160% medio Ocse. La prospettiva di un ritorno dell'investimento universitario relativamente basso e incerto potrebbe spiegare il limitato interesse dei giovani italiani per gli studi universitari anche se non hanno prospettive immediate di occupazione.
Senza lavoro e senza formazione
Nella Penisola il 35% dei 20-24enni non ha lavoro, non studia ne' segue un corso di formazione. Sono i cosiddetti “Neet” e quella italiana è la seconda maggiore percentuale Ocse. Tra il 2010 e il 2014, questa fascia d’età ha registrato un brusco calo dell’occupazione (dal 32% al 23%), ma la percentuale di coloro che continuano a istruirsi è rimasta stabile al 41%. «In Italia questi 10 punti di occupazione in meno sono diventati 10 punti di Neet in più», mentre in altri Paesi come la Danimarca questa situazione si è tradotta in un maggiore accesso a corsi professionalizzanti, sottolinea Avvisati. A spiegare le difficoltà che i laureati hanno nell'inserirsi nel mondo del lavoro potrebbe contribuire il fatto che spesso i titoli di studio non coincidono con l'acquisizione di competenze solide: nei test Ocse l'Italia ha registrato uno dei punteggi piu' bassi in termini di lettura e comprensione dei 25-34enni titolari di un diploma universitario.
«Quello che manca all'università italiana per essere più attrattiva e accompagnare le trasformazioni del Paese è il segmento professionalizzante, che abbia nel suo Dna un collegamento al mondo del lavoro, un servizio di placement. Si tratta di diversificare l'offerta dell'istruzione terziaria e i modelli didattici, puntando anche sull'alternanza tra studio e lavoro», come accade in Germania, conclude Avvisati.
Insegnanti poco pagati e vecchi, ma...
Gli insegnanti italiani guadagnano meno non solo della media dei loro colleghi degli altri Paesi industrializzati, ma anche di quanti - sempre in Italia - hanno qualifiche analoghe. Lo stipendio reale medio annuo di un insegnante di scuola dell'infanzia o primaria nel 2013 era pari a 33.379 dollari Usa a parità di potere d'acquisto contro la media Ocse di 37.798 dollari nel primo caso e 41.249 nel secondo. Un insegnante italiano di scuola media può contare su 35.757 dollari l'anno contro i 43.626 della media Ocse e un prof di scuola secondaria ha un salario annuo di 38.675 dollari, quasi 10mila in meno rispetto ai 47.702 della media dei Paesi avanzati.
Non solo: nella Penisola i docenti tra 25 e 64 anni nella scuola pubblica secondaria inferiore nel 2013 guadagnavano in media due terzi del salario medio dei lavoratori con qualifiche comparabili contro una proporzione media dell'Ocse dell'80%. Inoltre, i salari degli insegnanti sono principalmente collegati all'anzianità e non valorizzano le prestazioni di eccellenza, come avviene in Finlandia e Francia. Come sottolinea l'Ocse, gli stipendi degli insegnanti, oltre a rappresentare il maggiore singolo costo nell'istruzione formale hanno un impatto diretto sull'attrattività della professione.
Nel 2013, in Italia, il 57% di tutti gli insegnanti della scuola primaria, il 73% degli insegnanti della scuola secondaria superiore e il 51% dei docenti dell'istruzione terziaria avevano compiuto 50 anni di età o li avevano superati, le percentuali più alte registrate rispetto ai Paesi Ocse e ai Paesi partner. Il rapporto d'altro canto rileva che essendo prevedibile che molti di questi docenti andranno in pensione durante il prossimo decennio, l'Italia si trova di fronte a un’opportunità senza precedenti per ridefinire la professione.

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