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Quei 3mila cervelli in fuga ogni anno da un'Italia che non saprebbe cosa farne

01ricercatori

26/02/2016
Con le stime e le indagini del Cnr una mappa del fenomeno: il saldo tra ricercatori usciti ed arrivati nel nostro Paese è un pauroso -13%, l'unico negativo in Europa. Ma il nostro mercato del lavoro non è in grado di assorbire nemmeno quelli usciti dalle Università. E chi sta fuori non vuole tornare

Lavorano in ogni angolo del mondo ma, al contrario dei loro colleghi, i ricercatori italiani "fuggiti all'estero" non pensano di ritornare in patria. O almeno, coloro che hanno la saudade del Belpaese sono pochi: meno della metà. Il perché è presto detto. In Italia le condizioni di lavoro sono meno favorevoli da tutti i punti di vista: guadagni più bassi, possibilità di carriera striminzite e scarsa soddisfazione. Fuori dai confini, i nostri dottori di ricerca si trasformano e riescono a produrre più dei loro colleghi stranieri, portando acqua al mulino di paesi che formano meno ricercatori di quanti ne abbiano bisogno. A delineare un quadro ragionato del cosiddetto brain drain - che si traduce come "fuga di cervelli" - è Carolina Brandi, ricercatrice del Irpps-Cnr: l'Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali.
La Brandi studia da anni il fenomeno e nel 2014 ha prodotto un capitolo, inserito nel Rapporto Migrantes, dal titolo "L'emigrazione dei ricercatori italiani: cause ed implicazioni", in cui cerca di comprendere, innanzitutto, la dimensione di questa fuga e, soprattutto, se esiste davvero. O non si tratti piuttosto di "normale mobilità" dei ricercatori come in tutti i paesi del mondo. Ma anche le motivazioni di una dinamica che assomiglia sempre più un esodo che impoverisce il Paese. Perché, tra il made in Italy famoso in tutto il mondo esportiamo anche ricercatori. E il "Country report" della Ue, appena pubblicato, lo conferma
Il fenomeno. Esiste davvero la fuga dei cervelli italiani all'estero? A sentire i commenti degli italiani all'estero che in questi giorni hanno riacceso la polemica sul sottofinanziamento della ricerca italiana e sulle scarse possibilità di realizzazione professionale non ci sarebbero dubbi. Ma negli anni scorsi alcuni studiosi hanno messo in dubbio perfino l'esistenza del fenomeno. Anche perché non esiste nessuna banca dati con i riferimenti di tutti i ricercatori nostrani in attività all'estero. Appena varcano i nostri confini di questi si perdono le tracce e occorre andare a scandagliare le banche dati di organismi diversi per avere un'idea della consistenza numerica del fenomeno. Per la Brandi la fuga dei cervelli italiani c'è e sarebbe dovuta al fenomeno dell'overeducation: "produciamo" più dottori di ricerca di quelli che il nostro anchilosato mercato del lavoro riesca ad accogliere e la differenza si reca all'estero. La soluzione e duplice: o il mercato del lavoro si riorienta verso l'innovazione assorbendo i dottori di ricerca in esubero oppure occorre ridurne i numeri, condannando l'Italia al declino economico e sociale.
I numeri dell'esodo. Ogni anno, circa 3mila ricercatori italiani - dottori di ricerca che hanno conseguito il titolo accademico - prendono la via dell'estero. L'Italia, tra i paesi europei più industrializzati, esporta più ricercatori di quanti non ne importi dagli altri paesi. Per il nostro Paese il saldo è paurosamente negativo: meno 13,2 per cento. In altre parole, perdiamo il 16,2 per cento di ricercatori fatti in casa che si vanno a confrontare con i colleghi stranieri e riusciamo ad attrarre il 3 per cento di scienziati di altri paesi. Il confronto con le nazioni europee di riferimento è impietoso. "Per molte altre nazioni europee - scrive la ricercatrice - le percentuali sono invece in pareggio, come per la Germania, o positive come nel caso della Svizzera e della Svezia (oltre il +20 per cento), del Regno Unito (+7,8 per cento) e Francia (+4,1 per cento). Perfino la Spagna, la cui economia non brilla certamente, ci tiene a debita distanza con una perdita contenuta all'1 per cento. Una situazione che per l'Italia si traduce in un impoverimento del capitale umano a scapito dello sviluppo che, al ritmo di 3mila ricercatori italiani all'estero all'anno in un decennio - dal 2010 al 2020 - l'Italia perderà qualcosa come 30mila ricercatori costati agli italiani qualcosa come 5 miliardi, che all'estero contribuiranno allo sviluppo economico di quei paesi. Non proprio un affare.
Quei 3mila cervelli in fuga ogni anno da un'Italia che non saprebbe cosa farneLavorano in ogni angolo del mondo ma, al contrario dei loro colleghi, i ricercatori italiani "fuggiti all'estero" non pensano di ritornare in patria. O almeno, coloro che hanno la saudade del Belpaese sono pochi: meno della metà. Il perché è presto detto. In Italia le condizioni di lavoro sono meno favorevoli da tutti i punti di vista: guadagni più bassi, possibilità di carriera striminzite e scarsa soddisfazione. Fuori dai confini, i nostri dottori di ricerca si trasformano e riescono a produrre più dei loro colleghi stranieri, portando acqua al mulino di paesi che formano meno ricercatori di quanti ne abbiano bisogno. A delineare un quadro ragionato del cosiddetto brain drain - che si traduce come "fuga di cervelli" - è Carolina Brandi, ricercatrice del Irpps-Cnr: l'Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali.
La Brandi studia da anni il fenomeno e nel 2014 ha prodotto un capitolo, inserito nel Rapporto Migrantes, dal titolo "L'emigrazione dei ricercatori italiani: cause ed implicazioni", in cui cerca di comprendere, innanzitutto, la dimensione di questa fuga e, soprattutto, se esiste davvero. O non si tratti piuttosto di "normale mobilità" dei ricercatori come in tutti i paesi del mondo. Ma anche le motivazioni di una dinamica che assomiglia sempre più un esodo che impoverisce il Paese. Perché, tra il made in Italy famoso in tutto il mondo esportiamo anche ricercatori. E il "Country report" della Ue, appena pubblicato, lo conferma
Il fenomeno. Esiste davvero la fuga dei cervelli italiani all'estero? A sentire i commenti degli italiani all'estero che in questi giorni hanno riacceso la polemica sul sottofinanziamento della ricerca italiana e sulle scarse possibilità di realizzazione professionale non ci sarebbero dubbi. Ma negli anni scorsi alcuni studiosi hanno messo in dubbio perfino l'esistenza del fenomeno. Anche perché non esiste nessuna banca dati con i riferimenti di tutti i ricercatori nostrani in attività all'estero. Appena varcano i nostri confini di questi si perdono le tracce e occorre andare a scandagliare le banche dati di organismi diversi per avere un'idea della consistenza numerica del fenomeno. Per la Brandi la fuga dei cervelli italiani c'è e sarebbe dovuta al fenomeno dell'overeducation: "produciamo" più dottori di ricerca di quelli che il nostro anchilosato mercato del lavoro riesca ad accogliere e la differenza si reca all'estero. La soluzione e duplice: o il mercato del lavoro si riorienta verso l'innovazione assorbendo i dottori di ricerca in esubero oppure occorre ridurne i numeri, condannando l'Italia al declino economico e sociale.
I numeri dell'esodo. Ogni anno, circa 3mila ricercatori italiani - dottori di ricerca che hanno conseguito il titolo accademico - prendono la via dell'estero. L'Italia, tra i paesi europei più industrializzati, esporta più ricercatori di quanti non ne importi dagli altri paesi. Per il nostro Paese il saldo è paurosamente negativo: meno 13,2 per cento. In altre parole, perdiamo il 16,2 per cento di ricercatori fatti in casa che si vanno a confrontare con i colleghi stranieri e riusciamo ad attrarre il 3 per cento di scienziati di altri paesi. Il confronto con le nazioni europee di riferimento è impietoso. "Per molte altre nazioni europee - scrive la ricercatrice - le percentuali sono invece in pareggio, come per la Germania, o positive come nel caso della Svizzera e della Svezia (oltre il +20 per cento), del Regno Unito (+7,8 per cento) e Francia (+4,1 per cento). Perfino la Spagna, la cui economia non brilla certamente, ci tiene a debita distanza con una perdita contenuta all'1 per cento. Una situazione che per l'Italia si traduce in un impoverimento del capitale umano a scapito dello sviluppo che, al ritmo di 3mila ricercatori italiani all'estero all'anno in un decennio - dal 2010 al 2020 - l'Italia perderà qualcosa come 30mila ricercatori costati agli italiani qualcosa come 5 miliardi, che all'estero contribuiranno allo sviluppo economico di quei paesi. Non proprio un affare.
Perché i nostri ricercatori cercano fortuna all'estero? Per comprendere meglio le ragioni della fuga dei cervelli, l'istituto in cui lavora la Brandi nel 2010 effettua un sondaggio su circa 2mila ricercatori italiani impegnati all'estero. "I risultati di questa indagine - scrive la ricercatrice (leggi l'intervista) - mostrano che nella maggior parte dei casi la condizione professionale degli intervistati è molto soddisfacente: essi sono infatti in maggioranza professori ordinari, ricercatori senior o direttori di ricerca, e quasi tutti gli altri sono ricercatori o docenti. Solo in pochi casi, sono titolari di assegni di ricerca o hanno altri rapporti di lavoro". In altre parole, si tratta sempre di condizioni di lavoro più stabili con maggiori opportunità di carriera. In più, i ricercatori italiani all'estero guadagnano il doppio dei loro colleghi rimasti in Italia. E questa volta la percentuale di coloro che non pensa affatto ad un ritorno in patria sale al 63 per cento.
Dove lavorano? Due le fonti prese in considerazione per scoprire al servizio di quali nazioni si sono messi i nostri ricercatori. Circa metà dei 2mila intervistati dall'Irpps lavora nei paesi europei (Regno Unito, Francia, Germania, Belgio e Svizzera). Coloro che si sono spinti oltre oceano approdano soprattutto negli Stati Uniti e in Brasile. Ma l'Italia esporta anche i suoi cervelli migliori. Nel 2014, tra i 3.385 ricercatori italiani con indice di produttività scientifica alto (h-index superiore a 30) 641 lavorano all'estero permanentemente o parzialmente all'estero. Soprattutto negli Stati Uniti e in Europa, ma anche in Giappone, Sudafrica, Cina e Singapore. E farli rientrare in Italia è quasi impossibile. Il programma sul rientro dei cervelli lanciato dal governo Berlusconi nel 2001 ha convinto appena 488 ricercatori di cui meno di un quarto - 110 in tutto - ha rinnovato la permanenza in Italia per i successivi 4 anni. Un fiasco.

Fonte:http://www.repubblica.it/scuola/2016/01/25/news/mappa_cervelli_in_fuga-134098899/?ref=HREC1-4

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