Franchising, retail, business
11/04/2016
È tempo per il governo di investire in nuovi percorsi di studio che riconoscano al commercio e all’alimentare un ruolo nella nostra cultura e un traino per l’economia occupazionale del Paese (da Mark Up 248)
L’attenzione verso il mondo dell’alimentazione non è mai stata così alta da pare del grande pubblico. I problemi di obesità infantile sono all’ordine del giorno, così come i legami tra stile di vita e salute sono temi che non lasciano nessun media indifferente, dai femminili ai grandi quotidiani. Tante le informazioni che catturano l’immaginario collettivo e incidono sugli andamenti di questa o quella merceologia o comparto: pensiamo alle recenti dichiarazioni sulle carni o sugli zuccheri, alle intolleranze, vero o presunte, che lanciano diete “free from”, alla paura degli Ogm e al cavallo finito per sbaglio nelle polpette: le persone sono ormai in bilico perenne tra il terrore e la ricerca del nirvana alimentare. Infatti, sempre più spesso, al supermercato, vediamo acquirenti immobili davanti a uno scaffale, intenti a decifrare un’etichetta cercando di capirne i significati più oscuri.
Lo storytelling, tanto amato dal marketing, ha saputo appagare i consumatori intellettualmente attratti dal cibo, fornendo loro una storia da raccontare, un motivo per acquistare un prodotto che portava in sè tradizione, cultura e storia; ma non tutti i prodotti possono avvalersi dello storytelling e non tutti i prodotti con una storia sono consigliati dal cardiologo o dal dietista. Non basta la rassicurazione sulla provenienza e nemmeno un po’ di poesia, i cittadini vorrebbero capire di più, ma ancora aziende alimentari e retailer faticano a trovare la strada della didattica on pack o “a scaffale” e forse non è tutto nelle loro mani, o non dovrebbe esserlo. Molte catene stanno lavorando a stretto contatto con le scuole, creando programmi di educazione alimentare. Ma non basta, il cibo in Italia dovrebbe diventare materia di studio sia a livello di scuola elementare e media, sia pensando alla professionalizzazione del settore (produzione e distribuzione) attraverso la scuola superiore. In questo senso, perchè non pensare di moltiplicare gli istituti tecnici dedicati al cibo come quello di Canelli in enologia o il più recente post-diploma di Bari, Nuove tecnologie per il Made in Italy settore produzioni agroalimentari, che nasce proprio con il sostegno del sistema pubblico, insieme a quello privato? Attualmente si tratta di un elenco ancora troppo breve che diventa addirittura nullo se andiamo a cercare professionalizzazioni in termini di vendite. Gli istituti tecnici commerciali sono storicamente le ragionerie, che, a dire il vero, di commercio non trattano se non di quello dietro alle quinte. Pochi i corsi di marketing nei programmi di studio e nessuno di igiene alimentare. Eppure piacerebbe ai clienti incontrare commessi, banconisti in grado di accoglierli, con nozioni di alimentazione, con sorrisi di marketing, con elementi di cucina o racconti di provenienza. Questo oggi succede laddove l’impresa commerciale investe in formazione ed è utile ed encomiabile, ma ci chiediamo: non è tempo di pensare un po’ più in grande? E riconoscere che, forse, siamo ancora un Paese di naviganti e sognatori, ma per certo lo siamo anche di commercianti e su questo è giusto che le istituzioni comincino a investire un po’ di più.
Fonte:http://www.mark-up.it/un-liceo-per-food-e-retail-adesso-serve/