Franchising, retail, business
04/09/2016
Aeropostale, marchio storico della scena fashion americana, nel maggio scorso aveva fatto richiesta per la procedura di bancarotta “Chapter 11” dopo un 2015 devastante per i suoi conti: l’anno passato il retailer ha perso quasi 137 milioni di dollari e i ricavi sono calati del 18%.
Secondo le ultime notizie di questi giorni, Aeropostale va incontro alla liquidazione, per due motivi. In primo luogo la dura opposizione del fondo di private equity Sycamore Partner – che solo nel 2014 ne aveva acquisito una quota importante – al piano di riorganizzazione fallimentare, sostenendo che il retailer ha sprecato milioni di dollari senza ottenere una seria offerta di acquisto da parte di qualunque soggetto e che la liquidazione è l’opzione preferita per i creditori di Aeropostale. In secondo luogo, appunto, in quanto fallite (o non presentate affatto) le offerte di acquisizione di cui a più riprese la stampa si è occupata (l’ultima in ordine di tempo avrebbe dovuto essere quella di Versa Capital Management, che per alcune testate specializzate aveva approntato un piano per rilevare 500 punti vendita Aeropostale ma non ha in realtà fatto nessun passo ufficiale).
Il brand, fondato nel 1987 e quotato sulla Borsa USA dal 2002, nel 2010 contava 21.000 dipendenti ed una capitalizzazione di mercato da $3 miliardi. Ancora al termine del 2015 era considerato leader nel settore dell’abbigliamento per ragazzi (il suo network di vendita comprendeva 860 negozi nel Paese), e rivale per definizione di Abercrombie & Fitch. Anche quest’ultima, da parte sua, non sembra avere motivi per festeggiare: la flessione progressiva delle vendite prosegue ormai da quattordici trimestri, e il tentativo in corso da tempo di estendere la propria offerta a un pubblico più maturo non sembra avere trovato il favore dei consumatori.
Aeropostale scrive quindi un’altra pagina dolente della ristrutturazione del Retail americano dell’abbigliamento dopo i default di QuickSilver, American Apparel, Cache e Wet Seal. In realtà, il fenomeno è tutt’altro che limitato al comparto, e solo per citare i brand più famosi vanno citati i casi di Macy’s, Nordstrom, Tiffany e Target. Le parole “e-commerce” e “Amazon” in particolare sono spesso indicate quale unica ragione possibile della crisi, ma una lettura più attenta dei fatti recenti ci dice cose diverse.
Nel settore affine degli articoli sportivi, per esempio, nella primavera scorsa ha fatto scalpore il ricorso alla protezione prevista dal capitolo 11 della legge fallimentare statunitense da parte di Sports Authority, uno dei principali retailer del settore (470 negozi circa in 41 stati dell’Unione). Contemporaneamente Dick’s Sporting Goods, la prima catena di articoli sportivi negli Stati Uniti (brand storico del comparto dal 1948, attivo con 650 negozi) e rivale per definizione di Sports Authority, annunciava il piano di apertura di 36 nuovi punti vendita e il possibile subentro in alcuni dei punti vendita del concorrente. Alla base del suo successo tre fattori ben diversi dall’e-commerce.
Fattore decisivo per Dick’s Sporting Goods è stata l’inaugurazione di nuovi format, con negozi più piccoli e specializzati: da tre anni a questa parte DSP ha sviluppato la catena di punti vendita a insegna Field & Stream, dedicati a caccia e pesca. Venti sono già attivi e sono in piano di apertura altri 50 entro il 2017. Il secondo fattore è dato dall’eccellente risposta del mercato alla sua aggressiva offerta di articoli private label. In ultimo, l’accordo per ospitare gli store-in-store dei grandi brand del settore, quali ad esempio Nike Field House ed altre. Grazie a queste partnership si ottiene una partecipazione ai costi di design, allestimento e gestione del negozio e si offre un’attrattiva ulteriore al pubblico. Se rinnovato e ben diretto, insomma, il negozio sembra godere di prospettive di lunga vita.