Franchising, retail, business
25/01/2017
Com'è il menu degustazione del Mudec, ristorante due stelle Michelin a Milano
Cosa trasforma uno chef in un fuoriclasse? Qual è il preciso momento in cui un cuoco già talentuoso diventa una specie di icona dei fornelli?
Me lo chiedo da tempo, da quando ad esempio, alla presentazione della Guida Michelin 2017, Enrico Bartolini ha sfondato la barriera dell’ultrastella e si è trasformato nel ragazzo d’oro della ristorazione italiana.
4 stelle per tre locali, un cannoniere dall’impressionante efficienza realizzativa che non ha sbagliato nemmeno un rigore.
Oltre la bolla d’oblio mistico dei pochi 3 stelle italici, infatti, esiste un altro limbo insondabile: quello degli chef che sembrano avere un santo in paradiso, osannati dalla critica, magnificati dal pubblico, che fanno petting spinto con le guide dei ristoranti.
Ed è questo che voglio capire: se, oltre la coltre di fumo, là sotto, ci sia anche un arrosto. Un arrosto da 4 stelle.
Prenoto al ristorante Enrico Bartolini al Mudec a Milano, dove chef e staff al completo si sono trasferiti lo scorso anno.
Al terzo piano, esattamente sopra un notevole comprensorio di oggetti che ripercorrono la storia delle culture del mondo e soprattutto sopra le opere di un altro golden boy come Basquiat, c’è il ristorante due stelle Michelin che è un po’ la bandiera di Bartolini.
Il ristorante flagship direbbero gli americani, la nave ammiraglia.
Ad accogliermi c’è lui in persona, con un gesto che non pare un vezzo, ma una consuetudine. D’altra parte il ristorante porta il suo nome e il padrone di casa che dà il suo benvenuto è una sciocchezzuola che non tutti gli chef usano, ma che fa piacere, diciamocelo.
Il ristorante è accogliente, minimale: niente luci da stadio, ma finalmente un’illuminazione discreta senza scadere nelle lucine cimiteriali.
Elegante e caldo; stasera ceno da sola, ma ho un tavolo “panoramico” sulla sala da cui posso osservare una cena di compleanno piuttosto animata che mi tiene compagnia.
Si parte con gli amuse bouche, e si parte da subito bene con la melanzana moderna (cotta arrosto, spolpata e ricomposta), per passare al cannolo di pane alle erbe con cavolo nero e gelatina di carpione, e finire con la caramella di cipolla che ricorda la brace.
Neanche me ne sono accorta e Bartolini mi ha già conquistata con una scalata di sapori che mi sono esplosi in bocca ancora prima di iniziare.
Sarà che, ad accompagnare le entrate, ci sono anche dei grissini al Grana Padano 36 mesi e altri al peperone crusco che fanno la loro parte.
Opto per il menu Be Classic da 110 euro, con alcuni dei piatti storici di Bartolini e qualche variante che lo chef consiglia in base ai miei gusti. (Allergie? Ehm, no. Intolleranze? Nessuna. C’è qualcosa che non mangi? Mmm, no. Quanta fame? Parecchia.)
Il tour comincia con le alici in incontro tra saor e carpione, un insieme di sapori che riescono a farsi sentire uno per uno, compreso quelle delle “goccioline” blu che sono in realtà cavolo rosso cotto e ossidato. A corredo, tanto per non farsi mancare nulla, c’è anche un’ostrica.
Si impara da subito che Bartolini è capace di moltiplicare pani e pesci, nel senso letterale e numerico del termine. Ogni portata è composta almeno da due piatti, per esplorare i sapori originali su più fronti.
Succede lo stesso miracolo della moltiplicazione anche con il gambero di Santa Margherita in due passaggi.
Si comincia con l’illusione di mandorla. Mandorle vere, mandorle fake (ricostruite e ripiene di tartare di gambero), cipollotto, foglia di shiso; il tutto in un brodo di crostacei addolcito dal corallo dell’astice che varrebbe anche da solo l’intero piatto.
Nel secondo passaggio il gambero è crudo, ma con zampette e testina fritte. Tripudio di consistenze al palato, con la spinta delle gocce di salsa al tamarindo e rapa bianca con yuzu e peperoncino.
Conquistata, è ovvio. Lo ha rifatto: comincia piano e sale di grado, come quando “no, non è il mio tipo” e dopo mezzora sei innamorata.
Si riparte con ventresca e dintorni: nel primo piatto i calamaretti sono serviti con pezzi di mela marinati nel gin, salsa di salicornia, nocciole e brodo di morone.
Nella seconda puntata della serie c’è la ventresca appena scottata, un’illusione di baccelli di soia e senape in grani marinata nello yuzu. A chiudere il cerchio arriva anche l’ocra con all’interno il calamaretto di cui sopra e una gelatina di shiso verde.
Questa faccenda della scomposizione dei piatti in più portate moltiplica il piacere della degustazione: mi piace, molto.
E’ l’ora dei bottoni di olio e lime con sugo di caciucco e polpo arrosto: meraviglia pura, con un gusto intenso e un’esplosione di lime che fa venire voglia di chiedere il bis. O quantomeno di fare la scarpetta con il pane di casa che viene servito con del burro, salsa ai lamponi e capperi.
La scarpetta, invece che nel piatto, inavvertitamente la faccio nel burro col mio gomito goffo e realizzo un Pollock sulla tovaglia in onore del luogo d’arte dove sto consumando la mia cena in solitaria.
Questo, o meglio il mio sguardo colpevole e le giustificazioni al personale di sala, mi mettono nella condizione privilegiata di raccogliere qualche sorriso complice in più dai ragazzi che stanno servendo.
Questo per dire che qui ho trovato un’accoglienza di raro calore e non sempre necessariamente algida, anche in un ristorante due stelle.
Avendo già assaggiato in passato il cavallo di battaglia di Bartolini (il suo risotto con barbabietola e Gorgonzola), opto per il risotto arlecchino: arriva un piatto con le salse di peperone, basilico, curry, Grana Padano riserva 36 mesi, pinoli tostati, erbe aromatiche.
A parte viene servito un pentolino di rame, dentro c’è un risotto mantecato con erba cipollina e burro. Al commensale il compito di dosare, fare il ri-carico, assaggiare il risotto “al naturale”.
Un piatto divertente anche solo perché richiede un po’ di partecipazione attiva, e comunque l’ennesimo mix di sapori che, forchettata dopo forchettata, vi porta in Asia invece che nell’orto dietro casa.
Il maialino da latte è servito in 3 passaggi: hai voglia a spiegare ai populisti che nei ristoranti di questo tipo esci pieno, si potrebbe semplicemente portarli da Enrico Bartolini, che non lesina in porzioni.
Arriva per prima la pancia bollita in 3 brodi con salsa verde e radicchio tradivo; poi il carré arrosto, con la cotenna trasformata in crosticina croccante che non vi sto a dire il grado di godimento, e una salsa al rafano e gnocco all’amatriciana; per finire l’escalation di sapori decisamente corposi ecco la spalla arrosto marinata in caffè e arancia con salsa di zucca e zibibbo.
Lode, 10 e lode.
Lo chef mi si avvicina, “hai ancora fame?”: inizia la sfida. Sarei sul limite della sazietà, ma questo festival in crescendo di sapori e consistenze vorrei non finisse mai.
Decido di fare 31 e assaggiare anche il piccione, cosciente che significherà assaggiare altri tre piatti. Ma, neanche a dirlo, non me ne sono pentita.
Si comincia col petto in salsa di fegatini, di capperi, di uva fragola e col suo fondo di cottura; poi c’è la zampetta arrosto con pan perdù inzuppato nel fondo di piccione, rabarbaro, patè di piccione, salsa di cioccolato bianco e cereali; si finisce con il “sigaro” di patata dolce americana, fritto, con all’interno il piccione con salsa di lampone, Grana Padano riserva, pellicola di fungo porcino e polvere di cappero.
Spinge forte, fortissimo sui sapori, Bartolini, arrivando alla fine del trittico con un virtuale e ben assestato schiaffo alla cucina “per signorine”.
Al momento del dessert sono talmente soddisfatta che l’avrei anche saltato a piedi pari. Tuttavia finisco in bellezza, che a un dessert non si dice mai di no.
L’attimo del dolce, dopo un menu degustazione, è come l’ultimo dell’anno: volente o nolente è tempo di bilanci.
La risposta alla domanda iniziale sul fumo e sull’arrosto è evidente, scontata: qui c’è un sacco di ciccia, e il fumo manco si vede.
Bartolini, stelle o non stelle, è un vero golden boy.
Fonte:http://www.dissapore.com/ristoranti/milano-mudec-enrico-bartolini-2017/