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I grandi statisti italiani: franco modigliani. L'unico italiano ad aver vinto il premio nobel per l'economia

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06/02/2017
Franco Modigliani, l'esimio Professore del Mit, occupa un posto centrale nell’analisi economica del XX secolo.

Nel 1942 inizia la carriera universitaria, prima presso il New Jersey College e successivamente (1948) all'università dell'Illinois, dove conosce Richard Brumberg, con il quale pone le basi per il suo lavoro più noto: l'ipotesi del ciclo vitale del risparmio. La prematura scomparsa di Brumberg interrompe per alcuni anni lo sviluppo della teoria; la versione finale, infatti, dal titolo Ipotesi sul ciclo del risparmio, verrà pubblicata soltanto nel 1980.

Dal 1962 è professore di economia e finanza presso il MIT, divenendo, pochi anni puù tardi, professore emerito

Per i suoi contributi alle teorie del risparmio e della finanza è stato insignito del premio Nobel. Notevole è stato il suo apporto a una molteplicità di altri argomenti: lo testimoniano i cinque volumi dei Collected Papers.

La sua presenza nel dibattito sulla politica economica italiana rispondeva alla profonda esigenza dell’uomo, dell’economista, che, dopo aver analizzato i problemi, riversava nella ricerca delle soluzioni la sua grande passione civile, l’impegno per il benessere della collettività, di coloro che considerava suoi concittadini. Le discussioni con i responsabili della politica economica, o con i giovani che da lui avidamente apprendevano, erano sempre vivaci, volte ad approdare a conclusioni analiticamente fondate e socialmente giuste.

Al centro del suo studio stava un'idea molto semplice, che metteva in relazione propensione al risparmio, consumi ed età dei soggetti economici: in sostanza, la gente risparmia per la propria pensione, accumulando somme di denaro negli anni in cui fa parte della popolazione attiva, per poi spenderli – cioè consumare – durante gli anni della pensione. Le novità rispetto alle teorie precedenti non erano di poco conto: Modigliani era in grado di dare una spiegazione convincente di quello che era stato definito il paradosso di Simon Kutzets. Questi aveva notato un'incongruenza nella teoria generale del risparmio di Keynes: i dati statistici americani dimostravano che la quota dei risparmi sul reddito nazionale non aveva intrapreso una crescita di lungo periodo, nonostante un enorme aumento dei redditi personali. Modigliani e Brumberg dimostravano coerentemente che la loro ipotesi portava ad una serie di conclusioni innovative rispetto alle teorie esistenti, la più rilevante delle quali era che il risparmio personale non è determinato solo dal reddito, ma anche dalla ricchezza, dalle aspettative sul reddito futuro e dall'età e, più in particolare, dal tasso di crescita del livello di reddito, dalla crescita demografica, ma anche dalla struttura per classi d'età della popolazione, dalla ricchezza aggregata complessiva e, infine, che l'effetto moltiplicatore di un aumento di spesa si avvicina al valore inverso del tasso d'interesse marginale.

Le novità di tali formulazioni per un pubblico di non addetti ai lavori risiedevano soprattutto nella loro applicazione sia sul terreno delle politiche economiche governative, cui forniva nuovi elementi in base ai quali valutare gli effetti di certe decisioni di natura fiscale o monetaria; sia su quello, non meno importante (specie nelle società più avanzate, ma anche con una piramide demografica rovesciata), relativo agli effetti dei diversi sistemi pensionistici, per non parlare delle conseguenze di lungo periodo – cioè di quelle che vengono spalmate su più generazioni – dei deficit del bilancio statale. Le sue riflessioni su tali questioni furono giudicate sul “New York Times” da Paul Samuelson come «the best explanation of what actually happened in the great swing of American life since the 1950s». Ma si può anche andare oltre, poiché questi sono temi di scottante attualità per la gran parte delle società occidentali, nelle quali risparmio e pensioni sono al centro del dibattito e dello scontro politico-sociale. Averne delineato le variabili fondamentali circa cinquant'anni fa, quando tali questioni neppure erano all'ordine del giorno, non è stata cosa poco sorprendente. Non meraviglia, a maggior ragione, che oltre una trentina d'anni dopo, Modigliani avesse fatto di questi argomenti i motivi di un'appassionata discussione con i diversi governi italiani che, dall'inizio degli anni '90, cercarono di mettere mano alla questione della riforma del sistema pensionistico, invitando gli italiani – con crudezza, ma anche con gustosa ironia – a «rientrare nel genere umano».

Per certi versi ancora più attuale – e, si dovrebbe aggiungere, purtroppo – è il teorema che Modigliani definì insieme con Merton Miller, chiamato per l'appunto il “teorema Mo.Mi”, il secondo dei contributi teorici che gli valsero il Premio Nobel. I due studiosi delinearono tale teoria in due articoli pubblicati nel 1958, spiegando che in un mercato dei capitali perfetto il valore di mercato dell'impresa è indipendente dalla sua struttura finanziaria, «una tesi che apparve inaudita a quell'epoca». Anche in questo caso le novità erano di enorme rilievo. Prima del Mo.Mi. si riteneva che per un'impresa indebitarsi attraverso prestiti (bancari o obbligazionari) fosse meglio che emettere azioni, dato che il costo dei primi è di solito inferiore al rendimento delle azioni, anche perché si considerava che il costo del capitale era determinato unicamente dal tasso di interesse. In realtà, tale costo dipende dalla media ponderata dei costi dei due strumenti finanziari a disposizione dell'impresa, quello azionario e l'indebitamento. Modigliani obiettò, pertanto, che mentre gli azionisti si dividono profitti, ma anche perdite, il debito deve essere rimborsato con gli interessi, anche a rischio di una bancarotta e quindi di una perdita totale del capitale azionario. Non si poteva più affermare che un aumento di profitto atteso in cambio di un maggior rischio è veramente vantaggioso per gli azionisti. In conclusione, scrivevano gli autori del Mo.Mi., la regola d'oro per i dirigenti d'azienda non dev’essere la massimizzazione del profitto, bensì quella del valore di mercato dell'impresa. Infatti, in base alla loro teoria, se non vi sono effetti perturbatori del mercato (in sostanza se non esistono particolari vincoli ai movimenti di capitale o sono assenti imposizioni di natura fiscale sugli stessi), il valore di un'impresa non dipende dalla sua struttura finanziaria, bensì dal valore attuale dei suoi profitti venturi. Ne deriva che per l'impresa la strategia finanziaria diventa irrilevante: sarà, quindi, del tutto marginale ricorrere a forme di finanziamento che prevedano il ricorso all'indebitamento o all'emissione di nuovi titoli azionari.

Una mente brillante e straordinaria, di impronta keynesiana, capace di dare un lustro straordinario al nostro Paese: essere l’unico italiano ad aver ricevuto il Premio Nobel per l’Economia. Le sue teorie e il suo pensiero, tanto rigoroso quanto scevro da condizionamenti, sono un vero pilastro dell’economia che assicura il benessere a tutti. Non certo l’economia dei nostri giorni evidentemente!!!

Fonte:https://www.linkedin.com/pulse/i-grandi-statisti-italiani-franco-modigliani-lunico-ad-ferracci?trk=hp-feed-article-title-publish

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