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Una startup italiana su tre non dichiara un sito Internet

01sito internet

16/02/2017
Tra le aziende digitali iscritte al registro, rivelano i numeri diffusi dal Mise, 2.287 risultano prive di presenza online, un dato che mette in dubbio la loro natura "innovativa".

Aumentano nel nostro Paese le società tecnologiche, sono oltre 6mila e 300 con 32mila occupati, ma faticano a diventare grandi. Pesa la mancanza di capitali: da noi si investe dieci volte meno che in Germania
ROMA - Piccole, è nella loro natura. Con fatturati risicati, è normale. E pochi dipendenti, c'è da aspettarselo. Le startup sono germogli di aziende, scommesse che hanno bisogno di tempo per crescere. Ma un sito internet, per chi di mestiere si occupa di innovazione, dovrebbe essere il minimo. E invece una startup italiana su tre, a guardare tra le 6.300 e passa iscritte nell'apposito registro di Infocamere, non dichiara alcun dominio online. Un dato che può dipendere in parte da un ritardo di comunicazione: alcune si saranno registrate appena nate, quando magari il sito non era ancora ancora pronto. E in parte dalla loro natura: imprese che si occupano di sviluppare molecole farmaceutiche, per esempio, vivono di laboratorio e non di Rete. Ma un ritardo che per ampiezza, 2.287 siti "mancanti", segnala che nel gruppo delle aziende innovative, con i relativi sgravi fiscali, burocratici e occupazionali, sono entrati tanti soggetti che di startup hanno ben poco.

O almeno non di "startup" nel senso comune che la parola ha all'estero, quello che racchiude le varie Snapchat, Tesla e BlaBlaCar. Imprese che attorno a una tecnologia cercano di costruire un nuovo modello di business, da testare sul mercato. Fallendo nella stragrande maggioranza dei casi, da qui la necessità di rendere il loro fardello più leggero possibile. Alcuni avevano contestato che l'approccio adottato nel 2012 dal governo Monti per identificarle, cioè creare un registro speciale a cui si accede soddisfacendo una serie di criteri, non fosse il più adatto. Ora questa distorsione è diventata evidente. "La presenza sul web delle aziende non è l'unica manifestazione possibile del loro carattere innovativo", si difendono i tecnici del ministero per lo Sviluppo economico nel checkup annuale della normativa sulle startup, presentato lunedì all'incubatore Luiss Enlabs di Roma. Ed è vero. Eppure anche altri indicatori sembrano confermare che molte delle aziende iscritte al registro sono più imprese normali che si occupano di tecnologia, come società di consulenza informatica, che startup in senso stretto. Vedere il tasso di fallimenti, che come detto dovrebbe essere molto alto: invece dal 2012 a oggi solo 208 imprese hanno dichiarato cessata la propria attività. Oppure il numero di requisiti di innovatività presentati al momento dell'iscrizione: l'86% ne soddisfa solo uno su tre. O ancora il numero di aziende in utile, il 42,93%. Un dato positivo in senso assoluto, ma poco in linea con la parabola evolutiva delle aziende innovative, che di norma pensano prima a crescere e solo dopo a chiudere bilanci in nero.

A parte questo aspetto il rapporto preparato dai tecnici del Mise, molto completo per quantità e qualità dei dati, mostra una situazione a luci ed ombre. La luce è una crescita costante del numero delle startup iscritte al registro, circa 200 nuove ogni mese, per un totale che a fine settembre 2016 è arrivato a 6.363. L'ombra la loro difficoltà di crescere. Il totale degli occupati prodotti dal settore (a giugno 2016) è 32.087, ma 23 mila circa sono soci (all'80% uomini) e solo 9 mila veri dipendenti, poco più di due per azienda (tra quelle che li dichiarano). Il valore medio della produzione (considerando ancora una volta quelli disponibili) è in lieve rialzo a 151.884 euro, ma solo il 30% ha un fatturato superiore ai 100 mila euro annui, e solo il 2% superiore al milione di euro. La difficoltà non è cominciare, fare "startup", ma innescare quel processo di crescita esponenziale tipico delle aziende innovative di successo, il cosiddetto "scaleup".

Qualche caso di successo, per sviluppo e capacità di raccogliere capitali, in Italia si comincia a vederlo: i volantini digitali di Shopfully-Doveconviene, la consulenza finanziaria automatizzata di Moneyfarm, gli spazi per innovatori di Talent Garden, le protesi robotiche per la riabilitazione di Movendo. Ma restano casi isolati, soprattutto per la scarsità nel nostro Paese di capitale di rischio. Che sia questo il punto più debole di un debole ecosistema è testimoniato dai numeri: nel 2016, pure un anno di crescita, nel nostro Paese sono stati investiti in startup innovative da soggetti professionali meno di 200 milioni di euro, un terzo rispetto alla Spagna, dieci volte meno che in Germania, sedici volte meno che nel Regno Unito. Senza questa linfa è difficile che una azienda possa crescere a ritmi "internazionali": molti dei round di finanziamento superiori ai 10 milioni di euro le nostre startup li hanno chiusi all'estero (magari portando via anche il quartier generale). L'ultima legge di Bilancio ha provato a dare uno stimolo a questo settore, rendendo strutturali gli incentivi fiscali per persone fisiche e investitori professionali che scommettono in startup innovative. Dall'altro lato Cassa depositi, attraverso il Fondo italiano di investimento, e Invitalia, hanno creato dei veicoli dedicati al venture. F2i sta lavorando alla creazione di un fondo early stage, quelli che offrono alle aziende i primissimi capitali, che potrebbe partire entro la fine dell'anno. La sfida, non ancora vinta, è convincere patrimoni privati e aziende che il rischio vale l'innovazione.

Fonte:http://www.repubblica.it/economia/2017/02/14/news/startup_sito_internet-158288446/

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