Franchising, retail, business
20/02/2017
Hanno studiato in Italia, qui si sono formati per il mondo del lavoro, ma sono costretti a imbarcare il loro bagaglio delle conoscenze su treni diretti all’estero. Secondo gli ultimi dati raccontati dal Sole 24ore ha meno di quarant’anni la metà delle persone che nel 2014 ha lasciato l’Italia, giovani spesso rassegnati agli alti tassi di disoccupazione e all’impossibilità di costruire qui un futuro lavorativo adeguato agli studi conseguiti.
Il numero dei trasferimenti è cresciuto del 34,3% rispetto al 2012 e quarantacinquemila di loro hanno portato la propria residenza oltreconfine, scegliendo come meta soprattutto il Regno Unito.
Viene da Roma e vive a Londra anche Flavio, 27 anni, laureato alla Luiss in Economic e Business e, sempre alla Luiss, ha conseguito un Master in Economia. Dopo aver inviato curriculum e partecipato a concorsi, ai quali è risultato non idoneo “perché non adatto a un ruolo dal profilo internazionale”, ha deciso di abbandonare Roma e ha fatto domanda per lavorare nel Treasury, il ministero del Tesoro britannico. Dopo un esame di dieci ore, durante il quale gli esaminatori conoscevano solo il suo nome e non sapevano nulla su dove avesse studiato e cosa avesse fatto nella vita, Flavio è riuscito a vincere il concorso.
"Sono qui da 4 anni e ho iniziato subito con la carriera dirigenziale", spiega all'Huffington Post, "Il lavoro non ti viene delegato ma sei "proprietario" di ciò che fai. Mi piacerebbe tornare in Italia e poter vivere nelle stesse condizioni in cui vivo qua. Mi piacerebbe poter dare un mio contributo per guardare al futuro del mio paese".
Come lui, sono molti ad aver vissuto esperienze simili. “In Italia vedevo una mancanza di prospettive. Sono assolutamente contraria alla moda dello stage, spesso non retribuito”, anche Cecilia vive all’estero, a Zurigo, come tanti vorrebbe poter tornare per gli amici, per la famiglia, per la città, ma “una questione di dignità” le impedisce di accettare i compromessi lavorativi che le si prospetterebbero se dovesse vivere qui. Nel 2013 la legge Fornero ha introdotto l’obbligo per tutti gli stage di “un’indennità di partecipazione”, non inferiore a 300 euro mensili, che tuttavia rimangono l’unica fonte di reddito di lavoratori impegnati a tempo pieno, spesso con prospettive minime di veder avanzare la propria posizione all’interno dell’azienda.
“Le differenze con l’Italia sono troppe”, dice Francesco che vive a Londra da ormai quasi cinque anni, “soprattutto per la possibilità di crescere rapidamente nell’ambito lavorativo”. Secondo i dati raccolti da Italents per l’80% degli intervistati il fattore che maggiormente spinge ad andare a vivere all’estero è la presenza di meccanismi più trasparenti e meritocratici di reclutamento e carriera.
Non stiamo parlando di giovani che decidono di andare a vivere un anno a Londra per fare esperienza e imparare l’inglese. Parliamo di ragazzi che l’inglese lo conoscono al punto da riuscire a inserirsi, far carriera e diventare un’eccellenza in un paese che non parla la loro lingua di appartenenza. Laureati che espatriano e ottengono successi dando lustro a aziende oltreoceano, che hanno a disposizione migliori strumenti e finanziamenti più ingenti.
Quando diminuiscono i fondi aumenta la fuga, imponendo ai giovani, come Giacomo, addii controvoglia. Laureato con 110 e lode in ingegneria informatica ha cominciato a lavorare con contratti a progetto, rinnovati ogni tre mesi. “Niente di certo” dice lui. Da qualche tempo ha abbandonato la sua Sicilia per svolgere in un’azienda a Lugano la professione per la quale si era specializzato.
“Io adoro l'Italia, adoro quella parte che funziona. La cultura, l'arte, il cibo, la cordialità, il mare, i tramonti, tantissime cose. Mi piacerebbe tornare un giorno, ma in un'Italia diversa, con uno Stato più presente, più attento ai bisogni della sua gente. I soldi che guadagno voglio poterli usare per vivere e non per sopravvivere”.
Fonte:http://www.huffingtonpost.it/2016/02/05/italiani-estero-testimonianze_n_9166692.html?ncid=fcbklnkithpmg00000001