Franchising, retail, business
06/03/2017
La qualità tricolore resta un plus per i consumatori a stelle e strisce, ma per avere successo oltreoceano serve molto di più. Parola di chi è a capo di Export Usa, prima corporation americana con ufficio in Italia, che non teme il post Obama
Sono il terzo Paese di destinazione delle esportazioni italiane, dopo Germania e Francia. Lì – come certificato dal Rapporto Ice 2015-2016 – le nostre imprese nel 2015 hanno aumentato l’export del 21%, con un saldo passato da 18 a 24 miliardi di euro, tanto da divenire il secondo fornitore di beni e servizi. Eppure ancora tanti (troppi) imprenditori italiani non indovinano l’approccio giusto per affacciarsi su un mercato vasto e complesso come quello degli Stati Uniti. C’è chi sbaglia la strategia di avvicinamento, chi fatica a consolidare la propria posizione una volta messo piede Oltreoceano, chi delega tutto all’importatore di turno mettendo a repentaglio forza e autonomia del brand. Tutte situazioni che da una decina d’anni Muriel Nussbaumer si trova a dover affrontare ogni giorno. «Il made in Italy non basta più, è un paradigma a cui siamo ancora troppo legati», dice la 40enne di Bolzano (padre tedesco e mamma italiana) che vive a Rimini ma aiuta gli imprenditori a vendere da New York fino a Los Angeles. Come? Con la società di consulenza di cui è amministratore delegato: Export Usa, la prima corporation americana con ufficio in Italia, presieduta da Lucio Miranda, nata per dare un supporto agli imprenditori italiani ed europei a sbarcare negli Stati Uniti.
Cosa significa che il Made in Italy non basta più per esportare negli Stati Uniti?
La qualità dei nostri prodotti rimane un plus per i consumatori americani, ma non è più la conditio sine qua non. Gli interlocutori stanno cambiando, avanzano i Millennial che hanno una mentalità completamente diversa nell’acquisto, non richiedono solo il prodotto, vogliono una storia e un’emozione, vogliono conoscere. Gli imprenditori italiani non possono più pensare di delegare il loro brand e i loro prodotti a un importatore disinteressandosi di come vengono promossi e venduti.
Quali tipologie di aziende si rivolgono a voi?
Tutti i tipi, e lo dico per davvero. Tenga conto che il sito di Export Usa ha 30 mila visualizzazioni al giorno, registriamo circa 800 contatti al mese e gestiamo più di 250 società domiciliate nei nostri uffici che regolarmente esportano in Usa. Si va dalla grande multinazionale, che ha bisogno di strategizzare la parte di migration con particolare attenzione per i visti, alla piccola realtà che invece vuole avviare una vendita negli Usa. Anche i settori merceologici sono i più vari: meccanica, moda food, wine, design...
"LA DIMINUZIONE DELLE TASSE SUL CETO MEDIO ANNUNCIATA DA DONALD TRUMP FA SPERARE: POTREBBE FAVORIRE I CONSUMI"
Qual è il problema principale che riscontrate?
Una mentalità vecchia e obsoleta, secondo la quale per esportare negli Stati Uniti basta affidarsi a un importatore e delegargli tutto. Quel modello consolidato negli anni ‘80 non c’è più, ma i nostri imprenditori faticano a capirlo, è la loro testa che non è in linea con il mercato americano, non i loro prodotti che quasi sempre sono di elevata qualità. Spesso mi sento rispondere che non si è nemmeno pensato a quantificare il budget da destinare a quest’attività, oppure qualcuno pensa di poter avviare l’export contemporaneamente in Usa, Cina e India. Ma non funziona così: senza una strategia, senza una visione, non si va da nessuna parte.
E come funziona?
Non c’è un modello precostituito, perché ogni azienda ha esigenze specifiche. Però in linea di massima si parte con un’analisi di mercato per capire se un determinato prodotto può andare, si fanno le ricerche sul pricing con interviste ai buyer e agli agenti, poi si avvia un percorso. Quindi si cerca di capire come il prodotto può essere venduto sul mercato, e noi consigliamo sempre di creare una società commerciale negli Stati Uniti e lì stabilire un proprio export manager. Negli Usa, è bene ricordarlo, si può vendere in autonomia, trovando partnership sul territorio, auto-importando i propri prodotti e controllando così tutta la filiera. Non è necessario delegare tutto al solito importatore. Ma c’è un’altra cosa che va chiarita...
Quale?
Gli States sono un Paese molto esteso e molto eterogeneo, dire che si vuole vendere negli Stati Uniti può equivalere a non dire nulla se non si ha in mente cosa si vuole di preciso. Ci sono, per dirne una, 11 aree metropolitane, tra cui quella di New York, che conta circa 8 milioni di residenti e 60 milioni di turisti all’anno. Significa che se un’azienda si focalizza su quel segmento, ha davanti a sé un mercato più grande dell’Italia. E questo, ad esempio per le piccole aziende di vino che producono qualche decina di migliaia di bottiglie l’anno, è possibile.
Lei ha insistito sulla necessità di una strategia, di una visione e di un approccio giusto dell’imprenditore. Come si migliorano questi aspetti?
Negli ultimi tempi, grazie anche all’ingresso di una psicologa nel nostro team, ci siamo concentrati molto sull’antropologia del business, tanto che nel 2017 inaugureremo corsi di formazione per spiegare ai nostri imprenditori come si va a trattare negli Stati Uniti, quali atteggiamenti tenere, quale approccio utilizzare, in collaborazione con Claudio Belotti e Nancy Cooklin, coach di fama internazionale specializzati in Programmazione neurolinguistica. L’obiettivo che perseguiamo da anni, e che ora potenzieremo con questa nuova iniziativa, consiste nell’eliminare i gap culturali esistenti. Quando i manager italiani avviano relazioni con aziende cinesi o giapponesi, prima si premurano di conoscere alcuni elementi delle loro culture. Con gli americani no, danno per scontato di sapere già tutto. E invece non è così.
"MAI DELEGARE I PROPRI PRODOTTI A UN IMPORTATORE DISINTERESSANDOSI DI COME SONO PROMOSSI E VENDUTI"
Come hanno reagito le imprese italiane di fronte alla vittoria di Trump alle elezioni presidenziali americane? E come può cambiare lo scenario dell’export italiano negli Usa?
Dopo la vittoria di Trump abbiamo ricevuto diverse telefonate d’imprenditori che ci chiedevano: «E adesso cosa succede? Cosa dobbiamo fare?». Noi a tutti abbiamo spiegato, perché di questo ne siamo convinti, che l’Italia è sempre stata un forte alleato degli Stati Uniti e tale rimarrà. Sicuramente sotto il profilo dei visti e nelle politiche per l’immigrazione, cose su cui gli italiani non sono molto diligenti, ci vorrà più attenzione. Ma nella sostanza non cambierà nulla, per questo abbiamo tranquillizzato tutti i nostri partner. Anzi, ci potrebbero anche essere cambiamenti positivi.
Quali?
Trump ha annunciato una diminuzione nelle tasse sul ceto medio statunitense, e questo è un fattore positivo che può favorire i consumi. Inoltre, ha intenzione di portare avanti la politica di re-shoring già avviata da Obama per riportare negli Stati Uniti le aziende che hanno investito nella produzione all’estero; è facile quindi aspettarsi incentivi statali e federali perché si torni a produrre in Usa, oppure misure di defiscalizzazione, e questo può favorire le imprese italiane, a partire da quelle della meccanica.
Cosa attendersi invece per il Trattato commerciale con l’Europa, il TTIP?
Era già molto incerto prima, ora con l’avvento di Trump credo proprio che non si farà più. Per le nostre aziende non cambia nulla. Quel trattato poteva agevolare in alcuni ambiti ma danneggiare in altri, noi comunque non siamo mai stati particolarmente pro-TTIP.