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764 mila euro in 96 ore, così la ricerca italiana conquista il mondo del crowdfunding

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28/06/2017 - Resistente come il diamante, flessibile come la plastica e trasparente come il vetro: è il grafene liquido, il materiale del futuro. Scoperto nel 2004 e ancora in ampia fase di studio, questa sostanza spalmata su una pellicola avvolgente offre innumerevoli proprietà tecniche appartenenti a svariati composti. Una capacità più unica che rara, in grado di renderla uno degli elementi più analizzati e utilizzati per sperimentazioni scientifiche in tutto il mondo.

Perfino in Italia dove, seppur con un discreto ritardo rispetto al resto d’Europa, nelle ultime settimane ha riscosso un enorme successo in termini di crowdfunding, grazie all’innovativa startup bolognese Graphene XT. Un progetto di quattro ricercatori, tutti italiani e intorno ai 40 anni, capace in 96 ore di raggiungere 764 mila euro di investimento da oltre 250 finanziatori, superando in questo modo il tetto previsto di 530 mila euro.

Un successo mai visto prima né per velocità, né per entità economica, di cui abbiamo voluto parlare con Oreste D’ambrosio, manager dell’area finance della società, che ci ha spiegato quali saranno gli obiettivi da raggiungere nei prossimi mesi e come si svilupperà il business di un’impresa che conta di raggiungere i sette milioni di euro di fatturato entro il 2020.

D’ambrosio, vi aspettavate questo successo?

«Diciamo che ci ha piacevolmente colto di sorpresa, fino a farci pensare per un momento anche di modificare il nostro business plan per capire cosa fare dell’avanzo accumulato durante la campagna con Mamacrowd, ma alla fine crediamo di restituire i soldi che sono arrivati in più rispetto a quanto avevamo richiesto».

Come mai questa scelta?

«In generale, perché di solito si fa così, anche se può sembrare poco carino. In particolare perché questo è un ambiente dove i processi di crescita sono lenti all’inizio. Poi, magari, possono avere evoluzioni repentine, ma noi abbiamo tracciato una roadmap che vogliamo rispettare, senza bruciare le tappe».

Cosa prevede ora il vostro percorso di crescita?

«Con questi investimenti vogliamo comprare nuovi macchinari per continuare a fare ricerca, inoltre vogliamo scommettere sulle persone per sviluppare un’attività commerciale capillare sul territorio italiano».

Cosa intende?

«Attualmente nel team siamo in quattro, più qualche collaboratore esterno. Noi vorremmo arrivare a circa sette persone assunte a tempo pieno, ampliando le nostre competenze dalla ricerca pura al campo finanziario e della vendita».

Su cosa si è basato il vostro modello di business finora?

«Noi siamo ricercatori e fin dalla nascita della GXT ormai sette anni fa, che solo un anno fa si è trasformata nella Graphene XT, abbiamo sempre fatto ricerca, ottenendo finanziamenti da bandi europei e appoggiandoci, a livello di sede, sui laboratori dell’università di Bologna che ci ha permesso di sviluppare la nostra attività».

Quindi non avevate clienti?

«I nostri clienti arrivavano grazie al fatto che siamo tra i pochi in Italia che si occupano della materia e anche perché il nostro particolare brevetto depositato un paio d’anni fa sia in Italia, sia a livello europeo (questo ancora in fase di approvazione), permette a chi acquista il prodotto da noi di risparmiare tra il 60 e il 70 percento della spesa».

Un impatto importante sull’economia di un acquisto…

«Assolutamente. Proprio per questo alcune grandi aziende, dall’oil & gas al tessile, hanno iniziato a collaborare con noi, permettendoci di pensare concretamente di poter diventare una startup. Così abbiamo cambiato la nostra ragione sociale nel 2016 e abbiamo pensato al crowdfunding».

Si potrebbe dire che avete avuto ragione?

«Probabilmente si, ma la strada è ancora lunga e le sperimentazioni e gli studi da portare avanti sono tanti. Questo, infatti, è un materiale così particolare e prezioso che fino a quando non si saranno scoperte tutte le sue possibili applicazioni, richiederà importanti sforzi e impegno nel suo studio».

Quali sono oggi i suoi principali utilizzi?

«Il grafene liquido non è solo ecosostenibile, riciclabile, conduttore elettrico, antistatico, dissipatore di calore, ma è un materiale così duttile che unisce tutte le proprietà di molte diverse sostanze attualmente in commercio. Con un elemento, infatti, è possibile ricoprire ciò che ci serve, dandogli la forma che vogliamo e, allo stesso tempo, usandolo in differenti ambientazioni per differenti necessità.

E’ un materiale trasversale, potremmo dire. Per esempio, Samsung vorrebbe usarlo per fare i suoi televisori flessibili. In Italia ci hanno chiesto di studiarlo per ridurre il surriscaldamento delle trivelle petrolifere, in Germania per uso farmaceutico. Ma in America lo stanno studiando anche per aumentare la durata delle batterie al litio o per creare racchette da tennis».

Qual è il principio della sua applicazione?

«La produzione del grafene avviene in laboratorio. La sostanza potrebbe essere definita come un foglio singolo di atomi di carbonio, ma concretamente e anche semplicisticamente, se vogliamo, è l’unione di acqua e grafene in polvere. Una sintesi che grazie al nostro brevetto ci permette di essere realmente competitivi sul mercato, offrendo una soluzione decisamente più economica delle altre, con la stessa qualità.

Il materiale inoltre non ha una forma iniziale, ma si applica spalmandolo sulla superficie in questione. Più passaggi di copertura vengono fatti e più la pellicola sarà uniforme nel momento in cui la soluzione si solidificherà».

Qual è l’applicazione più futuristica o più importante che il grafene potrebbe avere nei prossimi anni?

«Indubbiamente quella dei circuiti stampati. Questo sarà il futuro di un materiale capace anche di farsi carico di circuiti elettrici e sensori al suo interno. In questo modo si sostituirebbe l’alluminio con un elemento che ha un costo minore e una maggiore riciclabilità. L’alluminio per conducibilità è praticamente insostituibile, certo, ma potenzialmente con questo composto si potrebbero creare pc, dispositivi, terze parti e chi più ne ha, più ne metta».

Quindi possiamo dire che voi siete l’esempio concreto che in Italia si può fare ricerca?

«Secondo me ogni luogo comune può essere superato, basta trovare il modo. Nel nostro settore, grazie anche alle proprietà innovative del materiale che stiamo studiando, in questi anni siamo sempre riusciti a raccogliere fondi universitari, europei, statali e a farli fruttare. La nostra stessa sede di sperimentazione attuale è all’interno del campus universitario di Bologna, quindi possiamo dire di essere fortunati. Certo paghiamo l’affitto dei locali e le difficoltà, in generale e come in ogni ambito, si presentano.

É innegabile e inevitabile, ma noi avevamo due possibilità quando abbiamo iniziato la nostra avventura: fare ricerca su qualcosa che ci avrebbe impegnato per anni senza portare guadagno strettamente economico o diventare un po’ imprenditori di noi stessi, studiando un materiale che potrebbe cambiare il mondo della filiera produttiva, come già sta accadendo».

Una scommessa difficile per un ricercatore…

«Si, ma riuscendo a fare business grazie alla ricerca, abbiamo potuto continuare a fare il lavoro dei nostri sogni, senza snaturare le nostre competenze e i nostri obiettivi. Questo oggi ci premia, ma dobbiamo continuare a crescere per raggiungere davvero un buon risultato».

Non prevedete però un ingresso nel mondo consumer?

«Al momento no. Noi facciamo parte della filiera e in questa fase il nostro obiettivo è quello di supportare le aziende nell’evoluzione della propria produzione, aumentandone le prestazioni e riducendone costi e impatto ambientale».

L’Italia è pronta per questa innovazione?

«Il mercato si sta aprendo. Ci stiamo muovendo con un po’ di ritardo rispetto ad altri in Europa, ma per esempio noi stiamo iniziando a ricevere richieste in differenti settori, come quello energetico e tessile. Inoltre, anche questa campagna di raccolta fondi sviluppata con Mamacrowd è un sintomo di grande interesse sul tema e allo stesso tempo un modo per capire la sensibilità delle persone sull’innovazione e sulle potenzialità di questo materiale».

Cosa deve fare dunque un ricercatore per non rimanere impantanato nel cliché dell’impossibilità di fare ricerca in Italia?

«Prima di tutto non deve mai smettere di crederci. In secondo luogo, deve poter avere anche una visione, diciamo, di sostenibilità economica del proprio lavoro sia che si tratti di bandi di finanziamento, sia che si tratti di vero e proprio business connesso alla ricerca. Infine, non deve pensare a validare il proprio prodotto di studio. Le difficoltà ci sono in ogni settore e a qualsiasi livello, per superarle bisogna continuare e credere nel proprio lavoro».

@IlSupremoDj

di Matteo Castelnuovo

Fonte:http://bimag.it/management/graphene-xt-mamacrowd-ricerca_441271/3/

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