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04/01/2018 - Questa poi…
Mi strofino gli occhi: non riesco ad appellarmi ad altro che alla stanchezza. Non ci può essere soluzione diversa: la fatica deve aver preso il sopravvento.
Faccio un ultimo tentativo. Forse due, dai.
Mi stringo nel bavero del cappotto. Mi allaccio meglio la sciarpa. Mi calo ancora un po’ il cappello di lana sulle orecchie e poi mi porto la mano destra alla bocca. Uso gli incisivi per sfilarmi il guanto di pelle con il quale, a dire il vero con scarso successo, cerco di proteggermi dal freddo newyorkese. Ho le dita congelate ma non ne ho nessuna pietà: le spedisco a cercare il mio Smartphone nella tasca dei pantaloni. Controllo il navigatore che ho impostato non appena sono salito sul taxi. Nessun dubbio sull’autista o sulla sua buona fede. E’ un’abitudine che ho da sempre: mi incuriosisce il tragitto, la distanza tra l’albergo e la meta da raggiungere. Soprattutto mi interessa il traffico che incontrerò e il tempo che impiegherò a completare il mio “percorso”.
Niente da fare. Sono nel posto giusto. Per la precisione al numero 431 della trentasettesima strada. Chiaramente a Manhattan, nella Midtown, a pochissima distanza dal Lincoln Tunnel.
Continuo a non fidarmi.
Apro l’applicazione della Guida Michelin e facendomi guidare anche dal localizzatore Gps, cerco di capire se davvero non mi trovo in un qualche universo parallelo.
Ennesima conferma. Sono esattamente dove dovrei essere.
Ma allora dov’è lo Chef’s Table at Brooklyn Fare?
Lo dico in italiano. E ad alta voce. Attirando la curiosità di numerosi passanti, per niente stupiti nel vedere un uomo immobile sul marciapiede, senza un guanto e con il naso perso verso il cielo.
Ricapitoliamo: sono a New York. Su questo non posso sbagliare. A Manhattan. E anche rispetto a questo argomento nessuno sembra aver nulla da obiettare. Di fronte ai miei occhi si staglia in tutta la sua grandezza il numero 431 della trentasettesima strada.
Ma allora perché non riesco ad intravedere l’entrata del ristorante di chef César Ramirez? Davanti ho solo l’ingresso di un enorme supermarket!
Che strano.
Mi faccio coraggio ed entro a chiedere. Mi introduce il rumore del campanellino legato alla porta. Quello che annuncia ai commessi l’arrivo di un nuovo cliente.
- Mi scusi… - cerco di introdurmi avvicinandomi alla cassa.
- Cerca il Brooklyn Fare, vero? – mi anticipa un tipo in felpa e cappellino da baseball.
- Eh sì – rispondo sorridendo.
- Guardi lo trova in fondo al reparto dei latticini… -
Penso ad uno scherzo di cattivo gusto: una sorta di tassa che devono pagare i turisti in visita a New York. Ma decido comunque di stare al gioco. Attraverso il supermarket quasi per intero. Mi lascio alle spalle gli scaffali pieni di bevande, pasta e cibi in scatola.
In fondo, come se si aprissero le ante dell’armadio de Le Cronache di Narnia, vedo comparire due avvenenti signorine asiatiche che sciogliendosi in un sorriso, mi chiedono di lasciare loro il cappotto.
Attraverso la porta d’ingresso.
E oltrepassandola do vita ad un’altra storia.
Come avrete capito da questa lunghissima introduzione, l’entrata dello Chef’s Table at Brooklyn Fare non è sulla strada. E’ anzi nascosta all’interno di questo supermarket che a prima vista sembra anche piuttosto fornito.
Trovo questa cosa assolutamente geniale. Il tentativo di legare l’alta cucina stellata al comune. Al popolo. Volendo alla realtà.
E’ solo l’inizio.
La sala vanta una cucina completamente a vista e si compone di una trentina di sedie disposte intorno a un bancone che introduce il luogo più sacro di ogni ristorante e di una mezza dozzina di tavoli, dove i commensali possono mangiare in maniera più intima.
La location è pazzesca: una straordinaria trovata americana della quale i miei occhi sembrano non averne mai abbastanza. Anche l’accoglienza mi conquista: camerieri veloci e preparati, cucina efficiente e rapidissima. L’attesa dura appena dieci minuti: seicento secondi e si può cominciare a mangiare.
Non esiste possibilità di scelta: c’è un solo menù, per altro prepagato come in molti altri ristoranti americani. La novità sta nell’acqua, gratis, e nella carta dei vini: per niente profonda ma con la possibilità di scegliere vini di diverse annate, pagandoli tutti lo stesso prezzo. Il sommelier mi spiega che è una loro precisa decisione per incentivare le persone a provare vini costosi ma importanti. Ottimi. Che andrebbero bevuti almeno una volta nella vita. Opto per un Renaissance: un Cabernet Sauvignon del 1994. Si tratta di un rosso molto corposo, dotato di una buona struttura e in continuo miglioramento grazie al processo d’invecchiamento. Ottimo per accompagnare la straordinaria cucina fusion di chef Ramirez.
Se proprio fossi costretto a prendere una decisione, direi che i piatti cucinati da Ramirez sono quelli che preferisco. Quelli che mangerei per tutti i giorni della mia vita. Amo quando la qualità delle materie prime, in questo caso il pesce fresco tipico della cucina giapponese, si fonde con le tecniche francesi, vedi il grosso utilizzo di salse o ingredienti particolari come il tartufo.
Ecco, se questa è anche la cucina che vi piace, il Brooklyn Fare è veramente il luogo che fa per voi.
Si comincia con una serie di finger food: una tartelletta di Maccarello giapponese, wasabi e formaggio alla base. Una tartina di pane con riccio di mare e un tartufo nero molto saporito e profumato. Poi una gelatina leggermente liquida di riccio di mare al sentore di tartufo nero.
Al tavolo mi raggiunge lo chef: ha con sé una ciotolina contenente del Caviale Beluga. Il piatto è costituito da tonno rosa, salsa di melanzane e proprio il caviale. Quando questa pietanza mi esplode in bocca con tutti i suoi sapori, capisco soltanto una cosa: questo è forse il piatto più buono che ho mangiato in vita mia. Credo che chiunque sia in grado di realizzare qualcosa di simile, debba ricevere subito e senza alcun indugio le tre stelle Michelin.
Apprezzo la purezza degli ingredienti: il tonno giapponese, il caviale tra i più pregiati che esista in natura. Soprattutto mi esalta un’interessantissima gelatina al limone che garantisce la giusta acidità.
Questo è il mio piatto. Il piatto della mia vita. Capace di togliere il primato ad una pietanza mangiata al Geranium, il ristorante danese dove gustai un nasello, ricoperto di caviale, con la pelle croccante dello stesso nasello a guarnire.
Si prosegue con un sashimi di goldeneye, un pesce giapponese molto pregiato, un altro sashimi, sempre di pesce, servito con zenzero fresco, un astice del Main (quindi totalmente americano) con salsa di limone e burro, un’insalata di granchio norvegese e cavoletti di Bruxelles, un tonno rosa cotto al vapore con spuma di birra e riso alla base e una piccola quaglia con mostarda accompagnata da funghi shiitake.
Chiudiamo con la carne di wagyu, accompagnata da mostarda, una riduzione di salsa di wagyu e quinoa croccante e chiaramente i dolci. Un passion fruit con una gelé di sake, un budino di cioccolato e un soufflé alla vaniglia strepitoso, ricoperto da una polvere di vaniglia che si scioglie al contatto con il palato.
Come potrete immaginare lascio il ristorante più che soddisfatto: posso dire, senza timore di smentita, che lo Chef’s Table at Broorlyn Fare è forse il ristorante tre stelle Michelin più incredibile in cui abbia mai mangiato.
All’interno del locale di chef Ramirez, cuoco dall’inestimabile genio, tutto sembra davvero essere nel posto giusto. L’idea di inserire l’entrata all’interno di un supermercato, la qualità dei prodotti primi, le tecniche di cottura e preparazione. Sicuramente questo è un ristorante in cui, trovandomi di nuovo a New York, tornerei senza battere ciglio.
Voto finale 4 barbe e mezzo.