Franchising, retail, business
22/04/2018 - Il fondatore e presidente di Brembo si racconta. Dal capannone "con due macchinari e sommersi di cambiali" a un colosso da 10mila dipendenti e ricavi per 2.5 mld "agli insulti presi in politica"
Alberto Bombassei ha i calzoni corti. Il compagno di banco sposta un foglio verso di lui, gli dà un colpetto con il gomito e fa: «Dai, guarda!». Il disegno è splendido. È una locomotiva a vapore. Sembra viva. Manca solo il rumore. Ogni dettaglio è curato alla perfezione: lo sbuffo dal fumaiolo che si perde nel cielo, le ruote che sembrano correre, le rotaie che scompaiono all'orizzonte insieme con lo stridore di ferro su ferro quando il convoglio inizia a frenare. Un segno, un accenno del futuro che sarà. I freni. E i treni. «Nicola, la tua locomotiva è più bella» ammette Alberto mostrandogli quasi intimidito la sua, «è un'opera d'arte la tua...».
L'amico si volta e ricambia con un sorriso un po' buffo mentre la testa gli ciondola leggermente di lato. I due ragazzini frequentano le medie a Bergamo e li accomuna la passione per il disegno, per l'arte, i quadri, le forme di treni e auto da immortalare su un foglio, una tela, su qualsiasi cosa non importa cosa. «Da grande mi iscriverò ad architettura e disegnerò su fogli giganti...» pensa un attimo prima che il professore gli dica di smetterla di distrarsi. Alberto Bombassei ora ha sessant'anni in più, i calzoni lunghi e «il setto nasale deviato per colpa delle troppe porte prese in faccia» scherza e non scherza. «Perché Brembo adesso è grande ma è stata tanto piccola e non era facile proporre i nostri prodotti alle Case automobilistiche». Nicola non c'è più. L'ha portato via un fottuto incidente stradale una notte d’aprile del 1999, una vita fa. Il destino a volte è crudele, altre volte è benevolo, comunque non fa mai sconti né regali; si limita a indicare la via. Come quella tracciata sui fogli di due bambini, come il futuro di Alberto e come quello del «mio compagno di banco, di Nicola Trussardi, che amava disegnare macchine e soprattutto treni e divenne invece uno dei più grandi stilisti di moda» ricorda il presidente di Brembo. «Mentre io che amavo soprattutto l'arte, io ho lavorato col metallo, con le macchine e persino i treni». Ferro su ferro. Il futuro che diventa realtà, una piccola officina che si trasforma in una grande industria, una delle più prestigiose del Paese, ricavi per 2.463 milioni, utile netto di 263 milioni, 10mila dipendenti di cui oltre un terzo in Italia. Il futuro trasformato in realtà, il futuro denso di altre avventure da affrontare. Come quel giorno di cinque anni fa, un giorno importante. Alberto Bombassei sta camminando e si sente «come da bambino quando indossavo il vestito bello della domenica». È in procinto di varcare le porte di Montecitorio, è il 2013, deputato neo eletto con Mario Monti, Scelta Civica. Alza lo sguardo verso il palazzo «e mi sembra di entrare in un luogo sacro, potrebbe essere San Pietro» pensa emozionato. Non sa che da lì a qualche giorno, nel luogo sacro come una chiesa andrà in scena un classico sacrilego della nostra politica: un parlamentare dietro di lui sale sul banco, pesta i piedi e urla insulti verso la presidenza della Camera.
E lei? Lei come reagì quel giorno?
È come ricordare una violenza. Fa ancora male. Bombassei prende tempo e si volta verso la vetrata. C'è luce dappertutto nel grande ufficio che come una torre di controllo domina il Kilometro Rosso, il cuore pulsante di Brembo, il distretto dell'alta tecnologia affacciato sulla Milano-Venezia voluto per creare sinergie tra aziende, startup e università.
Ingegnere, il deputato che ballava il tiptap sul banco?
«Sì... era dei cinque stelle. Mi sono girato, gli ho detto, ehi, ma siamo in Parlamento, che cosa stai facendo? Smettila, scendi da lì».
E lui? «Avrà avuto non più di 30 anni, mi disse solo: “Stai zitto tu, brutto coglione!”»
Benvenuto a Montecitorio.
«Ho dovuto passare i 70 ed entrare in Parlamento per sentirmi dire così».
Torniamo alle origini. Il ragazzino che voleva fare l'architetto.
«Quando glielo proposi, papà non mi fece finire di parlare. Ci provai due volte: alla fine delle medie mi rispose “no, tu farai l'istituto tecnico, forza, va, cammina...”; e dopo la maturità all'istituto Esperia “no, tu vieni a lavorare nel capannone, forza, va, cammina...”».
La Brembo era un capannone.
«Sì, a Paladina, all'inizio della Valle Brembana, anno 1961. E non si chiamava Brembo, bensì Officine meccaniche di Sombreno. Papà ci aveva messo i soldi della liquidazione da direttore in un’azienda meccanica».
E lei con i suoi figli?
«Luca neppure mi ha informato del corso di laurea. Si è iscritto e basta».
Laurea in...
«Architettura».
Alla fine un Bombassei è riuscito a diventare architetto.
«Sì. Però... sa... unico figlio maschio, l'azienda già di una certa dimensione, la consapevolezza che a quell'età si sentono un po' tutti poeti, ho temuto che avrebbe rimpianto questa decisione».
Ed è successo?
«No. È felice, si è realizzato. Così come l'altra mia figlia, Cristina, che lavora in Brembo, è Chief Csr officer. Prosegue l'avventura della famiglia».
E com'è iniziata l'avventura? Parlava del capannone...
«Io e mio fratello Sergio ci lavoravamo dodici ore al giorno, lui era però un vero appassionato di tecnica, io invece amavo troppo l'arte, dipingevo anche, mi piacevano le cose belle...». Si alza di scatto, allontanandosi. «Venga, guardi... guardi se non è un'opera d’arte questo...». Sul mobile accanto troneggia una forma di metallo dorato. «Vede, è una pinza freno di una Ferrari di serie... Sembra una scultura, è veramente un bell’oggetto. Abbiamo ricevuto anche un premio, il Compasso d'oro, ambito da tutti i designer».
La rivincita dell’architetto mancato?
«Un pochettino sì».
Le pinze rosse Brembo sono un oggetto di design sulle auto sportive.
«E pensi che colui che inventò la forma della capostipite non era certo un designer, era il Gianni Gotti e veniva dalla Val Brembana. Fece un gran lavoro. Il rosso fu invece un'intuizione della Porsche: ci chiese pinze colorate».
Non della Ferrari?
Sussurra. «È ar-ri-va-ta-do-po».
Torniamo a suo padre.
«Una sera ci spiegò di aver comprato i macchinari base: tornio, fresa, quelle cose lì. E che ci voleva in capannone, puntuali, alle 6. Da allora così ogni mattina: sveglia alle 4 e mezza».
Fu un inizio difficile?
«Durissimo. Papà a volte si inteneriva e ci diceva: “Dai, domani prendetevi del tempo...” Solo che l'indomani si domandava scocciato “ma dove sono finiti quei due?”. Eravamo sommersi da cambiali. Però, mi creda, mai avuta in famiglia la sensazione di non riuscire a farcela. Siamo veneti. La volontà del lavoro è dentro di noi. E sono grato a mio padre anche di un’altra cosa: ci ha marchiato a fuoco con il suo senso dell’onestà. La sua fama di uomo onesto ci ha aperto molte porte. Anche i primi lavori arrivarono così, come con l'Innocenti, per cui producevamo cerniere per le portiere».
E i freni a disco? Grande intuizione: cambiano motori ed energia ma freni e gomme restano.
«Con il buon Tronchetti Provera parliamo spesso di questo, io scherzo e dico “meno male che non produciamo volanti visto che presto le auto saranno senza guidatore...” Ma cambiamenti arriveranno anche per noi. L’idea di produrre per primi in Italia freni a disco è una storia nella storia: nel '64 eravamo piccoli e facevamo dei lavori per l’Alfa Romeo. Un loro camion uscì di strada con un carico di freni a disco. All'epoca li costruivano solo gli inglesi. L'Alfa ci chiese di riparare quelli rovinati e noi visionandoli ci guardammo stupiti. “Ehi, ma possiamo farli pure noi e, se solo ci impegniamo, anche meglio”. Iniziò tutto così».
Oggi sarebbe possibile replicare un'avventura simile?
«Credo proprio di no. Negli ultimi decenni in Italia è venuta a mancare la cultura del sacrificio. A tutti i livelli. E forse è anche colpa nostra».
A tutti i livelli?
«Molte realtà imprenditoriali familiari si sono chiuse nel passaggio generazionale, i figli si sono domandati “chi ce lo fa fare? Vendiamo tutto”. Fare impresa è vita di sacrificio, non è che se sei imprenditore passi il tempo in giro con la Ferrari».
E questo è un livello.
«L'altro sono i lavoratori. Qualche settimana fa abbiamo festeggiato nello stabilimento di Mapello i venti anni di produzione. Ricordo i colloqui di assunzione: i candidati alla fonderia domandavano “ma scusi, si lavora anche di sabato? Sa, perché alla sera vorremmo uscire con le ragazze...”. Questa era poca propensione all'impegno, a un minimo di sacrificio».
Perché dice che è colpa vostra?
«Perché noi figli della guerra siamo cresciuti con un senso del sacrificio molto marcato. Mancavano le cose e i nostri genitori non davano mai il superfluo. Solo che poi, con i nostri figli ci siamo domandati: “ma perché pretendere da loro gli stessi sacrifici che chiedevano a noi? In fondo, adesso, si sta tutti meglio”. E senza volerlo abbiamo contribuito a un rammollimento generazionale che ha coinvolto i ragazzi degli anni '80 e '90, quelli che ora hanno 40-50 anni».
I ventenni ora sono diversi?
«Sì. Ne abbiamo la riprova qui al Kilometro Rosso che fa da incubatore di iniziative, ricerche e idee: i giovani di 20-25 anni mostrano un'indole più spiccata al sacrificio e al rischio rispetto ai loro genitori. Le nuove tecnologie offrono opportunità infinite e i ragazzi hanno più voglia di mettersi in gioco».
E però lasciano il Paese.
«Il giovane che va a Londra o a Monaco equivale a quello che cercava fortuna a Torino, arrivando dal Sud o dal Veneto. L'Europa è casa nostra».
Lei è stato spesso critico verso il sistema scolastico.
«Sì, deve accelerare. E si deve investire sulla preparazione tecnica. Le cito un dato: ogni anno in Germania dall’equivalente dei nostri Its (Istituti tecnici superiori) escono 740mila tecnici e ingegneri diplomati che poi vengono tutti assunti; da noi solo 8000. Un centesimo. Come possiamo pensare di competere? In aree come Piemonte, Lombardia, Veneto c'è un’enorme richiesta di tecnici, solo che non si trovano. Oggi l'operaio capo reparto ha il camice bianco e usa l'ipad per controllare le linee di produzione. È la scuola che deve fare il passo in avanti».
Però con la quarta rivoluzione industriale (la massiccia introduzione dell'informatica e della robotica nei processi produttivi, ndr) chi viene rimpiazzato dove finisce?
«Negli ultimi tre anni, qui in Brembo abbiamo messo in linea più di 100 robot. E assunto 1047 persone. Non abbiamo mandato via nessuno. È un luogo comune pensare che il robot tolga occupazione. Il robot richiede gente che lo sappia gestire, e sposta occupazione. Chi non è specializzato farà altro, lavori più semplici. Mentre l'operaio che va al corso serale di meccatronica si evolve e compete».
E le imprese sono al passo?
«20-60-20. Il 20% è ormai entrato nel pieno della quarta rivoluzione industriale, è al passo, compete; il 60% prova a far convivere vecchio e nuovo; il restante 20% è convinto che potrà farcela restando ancorato al sistema tradizionale, ma in 5-10 anni scomparirà».
Bilancio dopo 5 anni di politica?
«Mi è rimasta addosso un po’ di delusione. Però resto soddisfatto del lavoro portato avanti in X Commissione (Attività produttive) assieme al ministro Carlo Calenda: le misure introdotte con il Piano Industria 4.0 hanno contribuito al grande cambiamento in atto nel Paese ora più attrezzato ad affrontare la quarta rivoluzione industriale. Penso ai super ammortamenti per facilitare chi investe in nuovi macchinari e tecnologie, penso alla legge Sabatini. Le aziende che oggi vogliono diventare davvero competitive hanno tutte le facilitazioni possibili. Quelle che rinunciano sono destinate a scomparire. E ora mi auguro che il nuovo governo, qualsiasi esso sia, prosegua con il 4.0, soprattutto investendo in formazione... Quanto a me, non mi sono ricandidato perché penso di essere più utile facendo bene il mio lavoro qui».
E Scelta civica non c'è più.
«In questi mesi ho spesso sentito criticare Monti e Fornero... Ci dimentichiamo in che condizioni di emergenza fosse il Paese all'epoca...».
Però Monti vi ha poi abbandonato.
«E questo è forse l'unico torto che ha avuto: non avere il fisico per fare il politico. Ma le misure adottate hanno raddrizzato il Paese. Piuttosto, lo sa che a mio avviso uno dei problemi in Parlamento era l’assenza non solo degli imprenditori (molti sono scappati!) ma anche della più elementare cultura imprenditoriale industriale. I più esperti, e numerosi, sono i sindacalisti».
E il nuovo parlamento?
«Non so se sia proprio così ma se, come afferma Berlusconi, l’80% dei parlamentari del Movimento Cinque Stelle non fa la dichiarazione dei redditi, non siamo certo sulla buona strada. E poi se penso a Pietro Grasso che voleva riportare l'articolo 18 e introdurre la settimana di 32 ore... quando l'ho sentito sono sprofondato».
E la flat tax e Berlusconi?
«Ora c'è chi evade 100, domani evaderà 70. Non otterrebbe lo scopo. Piuttosto, con un serio approccio 4.0 all'informatizzazione del sistema fiscale non sfuggirebbe più nessuno. E una volta che pagano tutti, allora sì che si potrebbero ridurre le tasse. Quanto a Berlusconi, alcune cose che sostiene sono corrette, non so se siano compatibili con le posizioni antieuropee della Lega».
E Renzi e il Pd.
«Lui ha fatto l'errore di disintermediare tutti: prima i sindacati, e ho pensato beh, non male... Poi anche noi imprenditori. E allora non va bene. Certo, era una strategia, ma gli è stata utile per poco tempo. Il solista non funziona mai senza orchestra. È questo il grande limite di Renzi, non ha avuto sufficiente equilibrio e maturità per capire che la politica è la capacità di raccogliere il consenso sulle cose che si crede di dover fare. Molte di queste cose erano giuste ma devi convincere tutti che lo siano e non provare sempre a imporle».
Prima diceva dei nuovi giovani. Lei aveva una trentina d'anni quando partì da Bergamo direzione Maranello ...
«Entrai in auto, accesi la mia Lancia Fulvia HF e pensai: vado a giocarmi il futuro di Brembo. Volevamo proporci come fornitori della Ferrari in F1. Avevo conosciuto Piero Ferrari, che all'epoca era ancora per tutti il Piero, e “che dici? Riesci a procurarmi un incontro con tuo padre?” gli avevo chiesto. “Tranquillo, ci penso io...”. Ma io non ero mica tanto tranquillo all'idea di trovarmi faccia a faccia con il Commendatore. Lui passava per il diavolo, terribile con dipendenti, piloti, tutti. Eppure, quando entrai nel suo ufficio, inaspettatamente, cercò subito di mettermi a mio agio. Sembrava di aver di fronte mio padre. “So che collaboriamo su dei modelli di serie” disse, “e vorreste fornirci pinze freno per la F1...” Parlammo a lungo, si confidò persino, poi disse di sì. E aggiunse: “Però si ricordi che con me si sbaglia una volta sola?” Appena tornato in azienda, con i 4-5 tecnici del reparto corse non fui altrettanto gentile. Li guardai: “Abbiamo una sola chance, se qualcuno sbaglia lo strozzo io con le mie mani...” Non abbiamo sbagliato: dopo oltre 40 anni riforniamo di pinze quasi tutti i team di F1 e alla Ferrari diamo pinze e freni. Il boss della Mercedes Toto Wolff, nonostante da 4 anni vinca tutti i mondiali, mi ha detto: “Vorrei che anche nei freni che date a noi ci fosse il cuore che mettete per Ferrari...”.
E nel motomondiale?
«Lì riforniamo tutti. I piloti ci chiamano San Brembo... Quando arrivano lunghi in staccata dicono “ci attacchiamo a San Brembo che poi ci pensa lui...”».
Lei è nella Hall of Fame dell'automobilismo, ha la Ferrari nel cuore, Montezemolo è un suo grande amico, ma la Rossa ora è in mano a Marchionne...
«E sappiamo tutti che fra loro due non c'è un amore viscerale...» sorride. «Con Luca sono amico da cinquant’anni. Ci stimiamo e aiutiamo da sempre. Con Marchionne è un rapporto più recente, ma siamo entrati subito in sintonia. Quel che ha fatto con Chrysler negli Usa e Fiat in Italia è eccezionale. Le ha risollevate entrambe quando fior di manager avevano fallito».
Marchionne minaccia di lasciare la F1 se questo sport verrà snaturato dai nuovi padroni americani.
«Guardi, l’ho visto tempo fa a Maranello, con i piloti. Ormai è talmente appassionato anche lui... Nonostante i capi americani della F1, la Rossa resterà».
E l'America di Trump. Muri, dazi. Brembo ha fabbriche lì e in Messico.
«Con un tempismo direi eccezionale, abbiamo inaugurato uno stabilimento in Messico e posto la prima pietra del secondo tre giorni prima che Trump venisse eletto. Quel giorno ho pensato: “Caspita! Mi sa che ci prendiamo una zuffolata”. Invece no. Per ora nessun contraccolpo».
In Italia c'è il terrore che le aziende delocalizzino.
«Non abbiamo mai delocalizzato. Noi internazionalizziamo. È diverso. In Italia non abbiamo mai chiuso nulla, anzi».
Non è architetto, non ha disegnato locomotive, ma alla fine un treno è riapparso nella sua vita: Italo.
«Ci sono stati momenti davvero difficili. Ricordo che l'allora numero uno di Trenitalia, Mauro Moretti, ex sindacalista, ci faceva vedere i sorci verdi: orari assurdi, binari lontani... E nessuno ci ha mai aiutato. La vendita di Ntv al fondo americano Gip (2,5 miliardi di euro, ndr) ci ha ripagato dei sacrifici. Sarebbe stato bello tenere Italo, ma erano per noi insostenibili le nuove sfide che attendono l'alta velocità in Europa. Certo, per me che da bambino disegnavo trenini con Nicola Trussardi, ecco, sarebbe stato davvero bello continuare a... giocare con i trenoni».
- Benny Casadei Lucchi
Fonte:http://www.ilgiornale.it/news/cronache/ero-artista-ho-fatto-fortuna-metallo-e-ora-i-miei-freni-sono-1518148.html?mobile_detect=false
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