Franchising, retail, business
03/05/2013
Le imprese tricolore annaspano ma i marchi dell’abbigliamento a prezzi bassi crescono. Ecco perché
La strategia: produzione all’estero, concept e design made in Italy
Pigiama a 12 euro, costume da bagno a 25, collant a 2 euro 90 centesimi. Se l’Italia è famosa nel mondo per le griffe d’alta moda, in un momento di crisi anche i marchi nostrani dell’abbigliamento low cost spopolano dentro e fuori il Paese. Calzedonia, Tezenis, Intimissimi, Calliope, Rinascimento, Terranova, Yamamay, Carpisa: piccole Zara crescono. Il patron della catena spagnola d’abbigliamento, l’imprenditore gallego Amancio Ortega, grazie a pantaloni, giacche e magliette, è diventato il terzo uomo più ricco del mondo, ma anche i manager di casa nostra non se la passano male. La chiave del successo: linee progettate e disegnate in Italia, ma prodotte all’estero. E i bilanci hanno tutti segno più.
Stefania Saviolo insegna management delle imprese di moda all’Università Bocconi di Milano. Il successo delle “piccole Zara italiane” lo spiega tracciando un modello di business fatto di «presidio al prodotto, forte stagionalità delle collezioni, un bel negozio in cui offrire “esperienze di acquisto”, ovviamente low cost ma di prodotti di valore, e modello verticalizzato di gestione della catena». Molte operazioni vengono svolte all’interno della stessa azienda, dalla logistica alla comunicazione. Alla catena verticalizzata sfugge però la produzione, appaltata ai Paesi in cui la manodopera è a basso costo.
Il successo del low cost dipende dall’abitudine di trovare abbigliamento conveniente tra gli scaffali del supermercato. «Negli ultimi 50 anni» spiega Saviolo «si è passati dalla distribuzione multimarca in merceria o nel negozio di intimo alle mutande e reggiseni venduti al supermercato. Il cliente si è abituato a spendere poco per questo tipo di prodotti e ad avere un’offerta più ampia». Così si sono create nuove aspettattive nel consumatore «che hanno aperto la strada alle catene di intimo. Alla convenienza del supermercato si è aggiunta la customer experience del negozio, che offre un prodotto più ricercato e variegato».
Dagli anni Sessanta a oggi, tra Verona, Varese e Rimini, sono nati gruppi come Yamamay, Calzedonia e Teddy, specializzati in intimo e abbigliamento low cost, in grado di andare incontro a condizioni mutate di reddito e potere d’acquisto.
Le storie aziendali
Dal 1986, anno della fondazione, il gruppo Calzedonia è guidato da Sandro Veronesi, inventore del marchio a Vallese di Oppeano, alle porte di Verona. L’idea era assolutamente innovativa per l’epoca: creare un negozio di calze, quando per comprare i collant si andava solo nelle mercerie o tra gli stand dei venditori ambulanti. Dieci anni dopo, nel 1996, nasce il marchio Intimissimi, focalizzato sull’intimo. Il 2003 è l’anno di Tezenis: sempre intimo, ma a prezzo più basso. Con le tre catene, il gruppo di Veronesi attua la “logica Mediaset”: canali diversi che non si fanno concorrenza tra loro, per tre pubblici differenti. Il pregio, come dice lo stesso Veronesi, è quello di aver «democratizzato» lo shopping dell’intimo, prima riservato a un pubblico ristretto. Non è un caso che, in un periodo di crisi come questo, a essere cresciuto di più nelle vendite (+25%) è Tezenis, il marchio dell’intimo low cost per eccellenza.
Dall’idea delle calze è nato un gruppo multinazionale. Più di 1.470 negozi sparsi in tutto il mondo, dall’Italia all’Ungheria, dalla Polonia alla Romania, con 20mila dipendenti, di cui circa 2.200 in Italia, un decimo del totale. Nel nostro Paese, gli stabilimenti del gruppo si trovano nel mantovano, nel trevigiano e in Trentino. Le unità produttive all’estero sono di più e si dividono invece tra Serbia – dove esistono già due stabilimenti produttivi, più un terzo che dovrebbe aprire nel 2014 – Sri Lanka, Croazia, Bulgaria e Romania.
Al timone della Pianoforte Holding, che controlla i marchi Yamamay e Carpisa (oltre al marchio di costumi Jaked lanciato in occasione delle Olimpiadi di Pechino), troviamo invece il già fondatore del marchio Original Marines, il senatore napoletano di Scelta Civica Luciano Cimmino (che nel 2000 ha ceduto le sue partecipazioni in Original Marines). Il figlio Gianluigi nel 2001 fonda la Inticom spa, proprietaria del marchio Yamamay, con la famiglia Garda di Varese, leader nel settore della distribuzione. Nel 2011, dopo dieci anni di vita del marchio, l’incontro con i napoletani Carlino, fondatori del marchio di borse Carpisa, e l’uscita di scena dei Garda. Il modello di lavoro replica quello già sperimentato in Original Marines: testa in Italia, braccia all’estero. La produzione delle merci avviene fuori dall’Italia, Estremo Oriente e Turchia in primis. Ma la testa e il concept restano in Italia.
Yamamay, un nome palindromo (si può leggere anche al rovescio), è un baco da seta giapponese importato in Italia a metà Ottocento. A oggi, il marchio ha collezionato una galassia di più di 600 punti vendita monomarca in tutta Italia e 130 all’estero. Con tassi di crescita che per le aziende italiane di questi tempi sono un miraggio: +11% di fatturato nel triennio 2008-2010. Anche Carpisa, di proprietà della Kuvera spa, nasce nel 2001, ma nel bacino produttivo della zona industriale di Nola (Napoli). In pochi anni spuntano come funghi oltre 500 punti vendita in tutta Italia e circa 90 all’estero. «La Zara delle borse», l’ha chiamata il patron Luciano Cimmino. Che significa: borse dal design curato, ma a prezzi bassi, come la catena spagnola.
Teddy Spa nasce più di 50 anni fa a Rimini, con la creazione dei marchi Rinascimento, Calliope e Terranova, che hanno collezionato a oggi ben 571 negozi monomarca in 34 Paesi. Quando inizia la sua attività imprenditoriale, Vittorio Tadei è un commerciante di capi al dettaglio. «Mia sorella aveva un negozio di vestiti a Rimini», racconta in un video, «la sera andavo da lei per rimorchiare le ragazze». Nel 1961 Tadei fonda Teddy e nel 1970 passa alla vendita all’ingrosso, creando la rete di negozi del marchio Rinascimento. La nascita di Terranova nel 1988 segna invece l’arrivo del franchising e della vendita diretta. Quando nel 2005 viene fonadata Calliope, il gruppo Teddy ha appena festeggiato l’apertura del quattrocentesimo negozio nel mondo.
Bilanci positivi
Per il gruppo Calzedonia, il 2012 è stato l’ennesimo anno di crescita a due cifre. La holding, che detiene i marchi Calzedonia, Intimissimi, Tezenis e il brand di maglieria Falconeri acquisito nel 2009, nel 2012 è cresciuta del 16% rispetto al 2011, registrando un utile netto di 137 milioni di euro. Dei tre marchi, il più importante resta Calzedonia, con un fatturato di 487 milioni di euro, seguito da Intimissimi, con ricavi pari a 481 milioni (+8% rispetto al 2011). Tezenis, il marchio più giovane, ha fatturato invece 401 milioni di euro, con un balzo delle vendite del 25 per cento.
Numeri positivi anche per Pianoforte Holding di Cimmino, che ha chiuso con segno più il 2012 con un fatturato superiore ai 300 milioni di euro (era meno della metà nel 2010) e che ora, come ha dichiarato uno degli amministratori delegati, punterebbe alla quotazione in Borsa, ma senza una data precisa («La faremo quando ci apparirà come un mezzo utile per espanderci»). E anche lo stesso ingresso di Intesa Sanpaolo nel capitale del Gruppo a inizio 2012 mirerebbe al salto della holding in Piazza Affari. L’operazione, che ha permesso alla banca di avere una quota del 10% attraverso la sottoscrizione di un aumento di capitale pari a 40 milioni di euro, nasce su iniziativa del Banco Napoli, che negli anni scorsi ha finanziato i due marchi, a fronte di un pegno sui titoli e sulle loro proprietà.
Anche il gruppo Teddy vanta tra gli anni Ottanta e oggi cifre in ascesa: prima tra tutte quella relativa ai capi fatturati, aumentati dai 600 mila del 1988 ai 69 milioni dello scorso anno. Cresce pure il fatturato, che nel 2012 segna un più 12% rispetto. Sale l’utile netto, pari a 34 milioni 828 mila euro (+39,4 per cento). Lo sviluppo riguarda anche il numero di dipendenti dell’azienda: erano 38 del 1988, oggi sono 874.
Obiettivo estero, verso Est
Uno degli elementi forti dei giganti del low cost italiano è la radicata presenza all’estero, soprattutto a Est. A differenza dell’alta gamma, l’italianità non è un valore fondante. «Nel low cost non c’è una distinzione delle case di moda italiane rispetto alle straniere», sottolinea Stefania Saviolo, «tanto che Tezenis ha testimonial internazionali». Lo confermano anche da Teddy, dove solo il marchio di vestiti Rinascimento punta sull’ “Italian style”: «Abbiamo diverse collezioni, tutte create dal nostro ufficio stile di Rimini, e un team di cool hunter e di stilisti che fanno ricerca in tutto il mondo. Interpretiamo tutto con il nostro gusto, siamo italiani, ma i valori di riferimento sono globali. Con Terranova proponiamo uno urban style europeo e statunitense. Con Calliope la parola chiave è “glamour”. E invece con Rinascimento offriamo il made in Italy: la cura dei dettagli e dei particolari, anche se solo il confezionamento viene fatto in Italia, le materie prime arrivano dai Paesi in via di sviluppo».
Per Calzedonia, il secondo mercato di riferimento dopo l’Italia è la Russia. Nei prossimi anni, l’azienda prevede di continuare lo sviluppo nell’Est Europa, con un centinaio di nuovi negozi. «I russi vogliamo servirli a casa loro», ha dichiarato Veronesi a Il Sole 24 ore, «e c’è tanto da fare: è un Paese enorme, in forte cambiamento». L’obiettivo ora è passare dai 3.300 punti vendita attuali in oltre 30 Paesi a circa 3.700 alla fine del 2013, ma i 400 nuovi negozi apriranno soprattutto all’estero: Russia in primis, oltre a Germania, Francia e persino Hong Kong. La maggior parte dei nuovi punti vendita avrà il marchio Calzedonia, che resta quello più richiesto.
In un mercato saturo come quello italiano, anche il marchio Yamamay di Cimmino punta a rafforzarsi all’estero. I 90 negozi di Carpisa nel mondo e gli oltre 130 di Yamamay non bastano più. Nel 2012, su un totale 300 milioni di vendite circa, una quarantina di milioni sono avvenute fuori Italia. L’obiettivo sarebbe quello di passare dall’attuale 13% al 30-40% nella quota di fatturato. Le mete principali sono la penisola iberica, il centro e il Nord Europa, oltre a qualche negozio nell’ex blocco sovietico e nel Nord Africa. In Spagna e Germania lo sviluppo dei mercati è affidato a società controllate locali, che hanno il compito di sviluppare un programma di affiliazione della clientela ad hoc.
La Teddy Spa all’estero ci avevo puntato in tempi non sospetti. «Negli anni Sessanta, Tadei aveva iniziato a viaggiare in auto per i Balcani. Voleva conoscerne il mercato», raccontano dall’azienda riminese. «Fu allora che si accorse di quanta voglia di Occidente ci fosse in Jugoslavia». Nel 1980 la Teddy Spa di Rimini apre il primo negozio in Croazia. Poi Praga, Belgrado e Zagabria. Nel 2003, l’approdo in Russia. «Qui ci sono tantissime città sopra il milione di abitanti. E noi siamo presenti nel 90% di queste». L’Est diventa per la Teddy la palestra in cui imparare ad affrontare la concorrenza: «Lì nei centri commerciali siamo arrivati prima che altrove e la concorrenza è stata fin da subito forte e ben organizzata. Così abbiamo imparato a confrontarci con i top player del settore», raccontano. Nel 2004 viene aperto il primo negozio in Medio Oriente, a Riyadh. Seguono i punti vendita negli Emirati Arabi, in Giordania e in Siria. «Marocco e Malesia saranno i prossimi mercati».
Parole d’ordine: struttura verticalizzata e franchising
«La struttura fortemente verticalizzata è l’elemento gestionale caratteristico dell’abbigliamento low cost», spiega la professoressa Saviolo. E uno sguardo all’organizzazione dei tre gruppi mostra come tutte le fasi di passaggio avvengano sotto lo stretto controllo delle sedi centarli, dal disegno dei modelli alla scelta della più piccola promozione fatta nelle Filippine.
Un esempio su tutti: Calzedonia cura ideazione, produzione e distribuzione, diretta o tramite affiliati (nel caso di Tezenis), di tutti i prodotti. La vendita avviene esclusivamente in negozi monomarca, sia gestiti direttamente sia in franchising, o affidati a distributori esteri. Parole d’ordine: “Niente sprechi”. Non si butta via nulla, con metodi diversi: dai resi anticipati agli outlet, allo shop online. Il segreto è il posizionamento dei negozi, che si trovano nelle zone nevralgiche delle città e nei centri commerciali. A supervisionare il lavoro viene schierato un esercito di consulenti, che fissano gli obiettivi di ogni punto vendita, decidono i budget e puntano sulla omologazione degli spazi, fornendo a commessi e gestori tutte le informazioni per gli allestimenti delle vetrine e le promozioni. Il risultato sembra essere rassicurante per il consumatore: ovunque si vada, da Reggio Calabria a Bolzano, troviamo sempre gli stessi prodotti.
Stessa strategia per Yamamay. La distribuzione si fonda su una presenza capillare dei negozi nelle città. E non in punti qualsiasi, ma – come scrive l’azienda sul suo sito – in «aree urbane con almeno 60mila abitanti», in «centri storici, centri commerciali e strade commerciali di primaria importanza». La superficie deve essere di almeno 70 metri quadri, con minimo due vetrine di «2,5 metri di ampiezza più l’ingresso». Tutti i punti vendita della catena, di cui il 90% in franchising e il 10% di Inticom, sono collegati in via telematica con il datacenter che gestisce la logistica e il magazzino della stessa Inticom e dei singoli punti vendita, garantendo il riassortimento automatico delle scorte.
Chi vuole aprire un negozio Yamamay può fruire gratuitamente del marchio. A patto che: lo faccia almeno per cinque anni e venga versata una fideiussione bancaria a favore dell’azienda del valore di 35mila euro. L’affiliato Yamamay dovrà sostenere gli investimenti relativi all’acquisto dell’arredo, «650 euro al metro quadro», oltre a quelli per l’esecuzione dei lavori edili e di impiantistica necessari alla realizzazione del punto vendita. Il negoziante risponderà poi anche degli oneri di informatizzazione e degli obblighi di copertura assicurativa. All’avvio dell’attività, seguirà corsi di formazione in azienda dedicati alla vendita, alla conoscenza del prodotto e al visual merchandising.
Anche questo, con l’obiettivo di omologare il più possibile i negozi.
Dagli uffici della sede riminese della Teddy Spa, si controllano tutti i punti vendita nel mondo e l’intera catena di passaggi, dalla produzione alla vendita. Come la logistica, «troppo importante», dice l’azienda, «per essere affidata all’esterno. Cerchiamo di raggiungere il massimo dell’efficienza per essere il più possibile vicini al cliente. Devono trovare quello che cercano al momento giusto. E per farlo, dobbiamo gestire tutto da qui, da Rimini». Un discorso simile viene fatto anche a proposito dei negozi. «La nostra formula è quella del franchising in conto vendita. Lavoriamo spesso con partner locali, e ci prendiamo il rischio dalla a alla z: se non vendi mi riprendo la merce». E se da un lato «si cercano partner locali per conoscere il mercato», in tutti i punti vendita, «anche nella città più lontana delle Filippine, manteniamo il controllo totale su tutte le politiche di prezzo e le strategie di disposizione della merce. Così con i saldi e le promozioni». I supervisori locali sono «tutti italiani e coordinati da un direttore commerciale nella sede di Rimini».
Alla catena verticalizzata “sfugge” però la produzione. I capi dei marchi Terranova e Calliope provengono tutti da Paesi nella fascia geografica che si estende dalla Turchia alla Cina. Per quanto riguarda Rinascimento, solo la materia prima non è italiana, lo sono invece il confezionamento e la produzione.
Il perché del low cost
«Il prezzo basso dei prodotti di queste case di moda è il risultato di diverse fasi, tutte efficienti», spiega Saviolo. «Il prodotto è acquistato a basso costo, in Paesi dove la manodopera costa meno. L’investimento in risorse umane è scarso, in negozio non c’è un vero servizio al cliente, i commessi hanno più la funzione di riordinare i capi», continua la docente. «E si adotta un’economia di scala, cercando di aumentare le vendite per ridurre il peso dei costi fissi. Così accade anche nella scelta delle dimensioni dei negozi. Quando si presentano a negoziare nelle città, hanno un potere maggiore delle aziende più piccole. Possono ottenere una superficie di 10mila metri quadrati anziché mille, ad esempio, perché garantiscono che riempiranno quello spazio grande con un prodotto variegato. Se ci fosse un solo formato sarebbe una noia pazzesca. E nessuno ti affitta spazi così grandi per esporre un prodotto omogeneo».
La centralità della comunicazione
«Il principale strumento di comunicazione del low cost resta il punto vendita, sempre situato in luoghi ad alto traffico. La logica è quella di portare il maggior numero di persone in negozio», spiega Saviolo. «Tutto è studiato in modo scientifico, a partire dalla vetrina, dove ci saranno le promozioni se si tratta di un negozio che offre prodotti della prima fascia, oppure i capi che attirano maggiormente, che invitano a entrare»
La forte stagionalità delle collezioni è un altro elemento caratteristico, in un continuo ricambio di prodotti, anche quindicinale. «Il cliente sa che per trovare qualcosa che gli piace deve visitare il punto vendita anche una volta a settimana». E tutta la comunicazione è di fatto mirata a creare traffico continuo in negozio, comprese le newsletter con promozioni e sconti. «Se non parte la primavera è un problema per l’abbigliamento», dicono dalla Teddy. «Non accade così nell’alta gamma», afferma Stefania Saviolo, «lì vai in negozio solo a inizio stagione o al momento dei saldi». E aggiunge: «Il negozio è sempre frammentato in più concept per essere più variegato, per far venire voglia al cliente di attraversarlo tutto: per questo ogni gruppo dà vita a più formati. Con ciascun formato (marchio, ndr) l’azienda si rivolge a un pubblico diverso, e riesce a coprire più segmenti di mercato».
Il ragionamento della professoressa trova conferma nella strategia di Teddy. «L’intuizione di Vittorio Tadei fu quella di capire la centralità del negozio», raccontano. «Da grossista, si rendeva conto di come fosse importante la vicinanza del punto vendita al cliente». «Non abbiamo dogmi nella scelta dei negozi, valutiamo di volta in volta», spiegano. «Non abbiamo regole sulla posizione, ma preferiamo sempre le grandi superfici, con metrature importanti. È la nostra strategia di sviluppo, simile a quella di tutti i top player del settore». Non solo perché i clienti «sono stimolati ad entrare in un grande negozio con tanta merce piuttosto che in uno piccolo», spiegano, ma anche perché le grandi superfici permettono di ridurre «i costi fissi e attuare un’economia di scala. E poi offriamo al cliente più linee: intimo, accessori, uomo, donna e bambino».
Calzedonia, così come Yamamay, promuove il proprio marchio anche con grandi investimenti in campagne pubblicitarie, curatissime e con testimonial di alto livello. Due esempi: Gisele Bundchen per Calzedonia e Irina Skayk per Intimissimi. Dal 2005, poi, il salto oltreoceano, che ha portato Intimissimi negli Stati Uniti grazie all’accordo con Victoria’s Secret, licenziataria esclusiva del marchio per il mercato a stelle e strisce. E dal leader dell’intimo americano il gruppo ha copiato anche il modello delle sfilate di intimo. L’ultima, lo scorso 16 aprile a Rimini. Strategia uguale per Yamamay, che solo nel 2011 ha speso 13,5 milioni di euro in comunicazione. Ogni anno il marchio distribuisce cinque cataloghi e le pubblicità si trovano sui principali mezzi di comunicazione, con testimonial d’eccellenza: da Federica Pellegrini a Jennifer Lopez fino a Bob Sinclair. Non solo: dal 2006 il marchio è main sponsor della Futura Volley, squadra femminile di pallavolo di Busto Arsizio, che milita nel campionato italiano di serie A1, vincitrice quest’anno della supercoppa italiana.
Tanta pubblicità ma scarsa penetrabilità. Nel caso di Calzedonia, i rapporti con i media sono esternalizzati, affidati a una delle più importanti agenzie di comunicazione in Italia. Ma avere informazioni aggiuntive rispetto a quelle (scarse) presenti sul sito è un’impresa eroica. Per Yamamay, l’ufficio stampa è interno. Ma anche qui si riceve sempre la stessa risposta: «Sono tutti fuori all’estero». Tanto che viene da domandarsi chi produca le borse e le mutande che vediamo nei negozi che affollano le nostre città.
By: linkiesta.it