Franchising, retail, business
04/07/2014
Roma è coatta, figli di pastori ed emigrati. È una città caotica, anzi sono quattro città diverse tra loro: beghina, coatta, popolana e sconcia, anche la lingua si diversifica tra i vari quartieri. “La filosofia romana è non pensare troppo, lo scopo della vita è vivere.È il popolo romano, è quello che più rifiuta di imborghesirsi. Vive in compagnia perpetua confidenziale irriverente, corre subito al Tu e ai nomignoli, le qualità che onora sono popolaresche, onora chi è sano, chi è forte, chi può mangiare e bere senza riguardi, chi ama la compagnia e sa stare allo scherzo, ma sa anche difendersi dallo scherzo, ribattere e picchiare il pugno sul tavolo. Onora poi chi sa parlare, non nel senso degli intellettuali, ma nel senso sociale e pratico del botta e risposta pronto e arguto. Ch’è una prova di forza. Vuole che l’uomo sia sincero senza finzioni, franco e senza peli sulla lingua, mantenga fede all’amicizia e non vi manchi per nessuna ragione, né un contrasto di idee né un giudizio morale. É buono della specie di bontà spietata collegata alla mancanza di ammirazione che aborre la superiorità e distrugge chi emerge, ma poi è pronto a soccorrerlo con lo slancio del cuore“. (Guido Piovene, Viaggio in Italia, 1957).
“Voi sape’ s’è bono er supplì? Bada che deve fatte er telefono”, ossia: la mozzarella deve filare tra le due metà spezzate. Tranquilli, non siete finiti nel Pasticciaccio di Gadda, sono le risposte più semplici che ho ricevuto alla domanda: “Come si riconosce un supplì fatto bene?“. A Roma il supplì è un’istituzione, per quanto non antichissima. È una polpetta di riso di forma allungata con ragù di carne con il pommidoro, impanata due volte e (possibilmente) fritta nello strutto, altrimenti nell’olio di oliva. La parola supplì deriva probabilmente dal francese surprise e la sorpresa è proprio il suo ripieno, la mozzarella filante. La prima testimonianza scritta della presenza di questo bocconcino fritto è del 1874: nel menu della Trattoria della Lepre a Roma compaiono con il nome di soplis di riso.
La prima ricetta certa la scrive Ada Boni ne La Cucina Romana (1929): le polpette di riso sono chiamate al femminile, le supplì. Nella sua versione il riso può essere condito con un sugo finto (senza carne, solo odori) e il ripieno prevede regaglie (interiora di pollo), funghi secchi e carne in umido tritata; a quest’ultima si possono sostituire un paio di dadini di provatura romana, il fiordilatte. Il supplì è un piatto che a Roma arriva intorno alla restaurazione, dopo l’occupazione napoleonica, ed è probabilmente la variante meno complessa del sartù di riso napoletano, con cui condivide l’impanatura (il soprabito: sartus, appunto), la crosticina e il ragù. La sua efficacia sta nel mescolare la croccantezza, il dolce, una punta di acidità: copre una gamma di sapori che portano nel tempo alla dipendenza e mangiarne uno non basta, si continuerebbe all’infinito. Nel luglio 1914 sulla rivista Noi e Il Mondo uscì il risultato di un’indagine secondo la quale, in appena 2 mesi e mezzo, i romani mangiavano tanti supplì da formarne uno grande e alto quanto la Colonna Traiana.
Inizialmente il venditore di supplì girava per strada la sera per i vicoli di Roma con uno scaldavivande o caldara colma d’olio strillando: “Calli bollenti! Supplì di riso!” e si metteva in qualche angolo nelle piazze, durante le fiere, le corse o il mercato; spesso ci abbinava il baccalà in pastella o le mele. Ora è facile trovarlo in tutte le pizzerie e nelle varianti più incredibili compare anche nei menu di una serie di ristoranti di buona levatura, ma è rimasto sempre uno street food, da mangiare con le mani e possibilmente per strada. Magari, come dice Piovene, in compagnia.
Arcangelo Dandini, oste e ristoratore, ha portato alla tavola del suo locale del rione Prati proprio questa specialità, nobilitandola, e gli ha (quasi) dedicato una friggitoria, aprendo Supplìzio. La sua ricetta del riso per il supplì è questa: “Quando penso al supplì mi viene in mente un risotto arricchito, è una pietanza ricca di sapori e di equilibri delicati. Partiamo dal riso, che deve essere quello da risotto: Carnaroli, eventualmente Vialone nano. Il primo passaggio è la sua tostatura fatta a secco, quindi senza aggiungere alcun elemento grasso: serve per essiccare l’amido all’interno. Si fa una brunoise di sedano e poca cipolla, senza carota perché non serve un altro elemento dolce oltre a quelli già presenti: inizia così il gioco dei bilanciamenti dei sapori. Si aggiungono i durelli di pollo (che danno una nota amarognola), tritati della grandezza di un centimetro circa: quando iniziano a colorarsi, si regola di sale quindi si aggiunge una salsiccia di maiale macinata grossa, sbriciolata a mano. Serve lo spunto amarognolo e una bella nota grassa per reggere la cottura, che deve essere di maiale: così abbiamo un grande ragù. È il momento di inserire un elemento aromatico, dato dai semi di finocchietto selvatico; a questo punto si aggiunge il pomodoro, perché questo piatto vuole una spinta acida. Il ragù deve essere nervoso, dare carattere al supplì e tenere testa sia alla componente grassa che al fritto, portando in equilibrio i sapori“.
Vi lascio anche un paio di miei consigli: a Roma si usa il Ri.Be, il riso Roma, poche volte il Carnaroli; lo strutto è raro, perlopiù si usano composti di olio di palma e semi. È previsto che il sugo finito lo si lasci a riposare con il riso coperto dalla salsa al pomodoro. Usate una foglia di alloro, mai il basilico. Su una cosa siamo tutti d’accordo, il supplì è un piatto popolare: mangiato per strada e in compagnia è più buono.
By: agrodolce.it