Franchising, retail, business
08/10/2015
L'esempio più fresco è Grom, la catena del «gelato come una volta» appena ceduta al colosso anglo-olandese Unilever. Lo stesso che ha rilevato, nel 1974, un'azienda romana che si chiamava Algida e oggi svetta nello stesso carrello di marchi del tea Lipton, i brodi Knorr e i prodotti per l'igiene di Dove.
Secondo i numeri forniti da Kmpg già nel 2013, in Italia si sono registrati un totale di 437 passaggi di proprietà solo tra 2008 e 2012 (escluse le operazioni successive ndr), per una spesa da 55 miliardi di euro su brand storici di agroalimentari, lusso, motori e arredamento. Una trafila che fa parlare di «svendita del made in Italy», soprattutto se a finire sul piatto sono pezzi di storia industriale o esperimenti da trattenere in patria.
Ma è sempre vero che le acquisizioni straniere equivalgono a una condanna? Non proprio, se si tengono in considerazione i numeri delle dirette interessate: le aziende. Uno studio di Prometeia e Ice («L'impatto delle acquisizioni dall'estero sulla performance delle imprese italiane»), ha dimostrato già nel 2014 la marcia in più di 500 società acquisite dall'estero rispetto a un campione di omologhe rimaste al 100% italiano: +2,8% nel fatturato, +1,4% nella produttività e +2% sull'occupazione, il terreno di comparazione più delicato quando si parla di “fughe” (o presunte tali) sotto l'ala di holding straniere. Perché le operazioni, se hanno senso strategico, permettono di «aumentare il numero di lavoratori impiegati e quindi migliorato il rapporto dell'impresa con il territorio d'insediamento».
I vantaggi: nuovi mercati, ricerca ed...export
Alessandra Lanza, partner di Prometeia e tra gli autori del report, divide i benefit delle operazioni di acquisizione nelle due «grandi categorie» di accesso al mercato internazionale e aumento della produttività. Cioè: conquista di terreni irraggiungibili con le proprie forze finanziarie e un progresso nel know-how che alza l'asticella di quantità e qualità degli output. «In primis l'internazionalizzazione. Pensiamo solo a un dato: l'export dell'alimentare tedesco è pari al doppio di quello italiano – spiega Lanza al Sole 24 Ore - Non credo che vogliamo dedurne che i prodotti tedeschi sono migliori dei nostri: questo si verifica perché c'è una grande piattaforma di Gdo che fa da volano» . Il secondo effetto, in positivo, è potenziare la qualità del made in Italy in infrastrutture con competenze e tecnologie adatte agli urti del mercato globale. «Parlo ad esempio di tesoreria, logistica, competenze di marketing evolute e aperte al digitale. Tutti fattori dove facciamo più fatica rispetto ai competitor internazionali» fa notare Lanza. Qualche dato può essere estratto dalla presenza di multinazionali in Italia: i big esteri incidono sul 24% degli investimenti in R&S e il 25% delle esportazioni. Lanza le vede come un “anello” di congiunzione – o un'ancora di salvezza- per aziende che cercano il salto di qualità: «Abbiamo un tessuto imprenditoriale di aziende sbilanciate sulla piccola dimensione. L'unico canale che ci rimane è attrarre investimenti dall'estero. Altrimenti il rischio è un impoverimento, cioè che nessuno metta i soldi» fa notare Lanza.
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