Franchising, retail, business
03/09/2017 - Il partito delle tasse continua a fare proseliti, nonostante tutto. Sono quelli che pensano di risolvere i problemi del Paese spostando la pressione fiscale da un punto all’altro; dai redditi ai consumi (legge aumento dell’Iva) oppure dal lavoro ai beni mobili e immobili (i fan della patrimoniale). Poi ci sono quelli che insistono nel dire che le tasse servono a redistribuire il reddito e quindi sono uno strumento di giustizia sociale. Infine, quelli che sostengono che tagliare la spesa pubblica fa più male al Pil di quanto lo faccia aumentare la pressione fiscale (a questo gruppo appartiene anche il ministro dell’Economia).
In realtà l’Italia è un caso scuola. Il Belpaese ha sperimentato sulla sua pelle quanto la pressione fiscale faccia male alla crescita, agli stipendi e anche alla qualità della pubblica amministrazione. Come l’aumento delle tasse sia, nella maggioranza dei casi, totalmente svincolato dal miglioramento dei servizi e di come sia invece correlato al peggioramento delle condizioni dell’economia.
Ieri la Cgia di Mestre ha elaborato alcuni dati sul fisco italiano. L’informazione più significativa è la serie storica delle entrate fiscali. Negli ultimi 20 anni sono cresciute di 80 punti percentuali, il doppio dell’inflazione che nello stesso periodo è cresciuta del 43 per cento. Negli stessi anni il Pil è calato di più di 10 punti percentuali, abbiamo perso più di due milioni di posti di lavoro e i lavoratori guadagnano meno. In teoria i redditi pro capite dovrebbero tornare al livello del 1995 tra circa dieci anni. Nel ventennio del tassa e spendi, è aumentata anche la quota di italiani in povertà assoluta e siamo tornati a emigrare come negli anni prima del boom economico.
Difficile dire che l’aumento delle entrate fiscali nelle casse dello Stato si sia trasformato in un aumento della qualità della vita dei contribuenti. È noto come nelle regioni meridionali, dove la tassazione locale picchia più forte, i servizi siano peggiorati.
L’aumento delle tasse è reale. Oltre alle entrate è aumentata la pressione tributaria pro capite. Nel 1996 era 4.837 euro, nel 2016 ha raggiunto 8.173 euro. La somma che paga in media il contribuente italiano è cresciuta del 69%. A fronte di redditi che sono diminuiti.
Difficile pensare che ci sia dietro una strategia per quanto sbagliata. Più facile dedurre che il sistema fiscale italiano cresca per inerzia e per populisimo. Una follia documentata dalle 100 tasse censite dagli artigiani di Mestre. Quelle che pesano di più (il 54,2% del gettito) sono Irpef e l’Iva. La prima (Imposta sul reddito delle persone fisiche) garantisce alle casse dello Stato un gettito di 166,3 miliardi di euro (il 33,7 per cento ovvero un terzo del totale) mentre la seconda è pari a 101,2 miliardi di euro (20,5 per cento).
Per le aziende le imposte che pesano di più sono l’Ires (Imposta sul reddito delle società), che nel 2015 ha consentito all’erario di incassare 31,9 miliardi di euro e l’Irap (Imposta regionale sulle attività produttive) che ha assicurato 28,1 miliardi di gettito.
Siamo quarti nell’Area euro per pressione tributaria dopo la Danimarca, la Svezia, la Finlandia e il Belgio. La nostra pressione è superiore di ben 6 punti percentuali rispetto a quella tedesca (23,6 per cento). «Si tratta di una posizione ancor più negativa se si considera l’altra faccia della medaglia, ovvero il livello dei servizi che nel nostro Paese deve migliorare moltissimo», commenta il segretario della Cgia Renato Mason, che auspica un vero taglio alla pressione fiscale. Magari non il solito gioco delle tre carte, caro al partito delle tasse.
ANTONIO SIGNORINI
Fonte:http://cinquantamila.corriere.it/storyTellerArticolo.php?storyId=59abd6a8deaa1