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Assurdità italiane: le banche stanno meglio, ma non danno più soldi alle imprese

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18/09/2017 - Nel secondo trimestre dell’anno il credito a imprese e famiglie produttrici è sceso di 15 miliardi rispetto al primo trimestre. È l’altra faccia del risanamento delle banche, che ora hanno come priorità la ripulitura dei bilanci dai crediti in sofferenza

Negli ultimi due anni tutti gli occhi sono stati fissi sui livelli record dei crediti deteriorati detenuti dalle banche italiane. Un livello che ha richiesto manovre straordinarie e piroette legislative per prendere per i capelli - a spese dei contribuenti - Mps e le due banche venete. Ora che la fase più acuta della crisi bancaria è passata, è il caso di guardare un dato rimasto fin qui sottotraccia: il credito alle imprese sta calando. Di quanto? Alla fine del secondo trimestre lo stock di crediti erogati alle imprese e alle famiglie produttrici (cioè le imprese fino a 5 dipendenti) è sceso di 15 miliardi di euro. «È un calo drammatico, c’è un credit crunch in corso», hanno commentato da Banca Ifisi durante l’Npl Meeting di Venezia organizzato dalla stessa banca il 15 settembre. «È un’enormità, in un momento in cui l’economia riprende e quindi “stiamo riportando il cavallo a bere”».

Il dato, ricavato dalla pubblicazione “Banche e moneta” della Banca d’Italia, è stato elaborato nell’ultimo MarketWatch Pmi della banca. Il confronto con il 2011 è impietoso, dato che dal dicembre di quell’anno i prestiti alle società non finanziarie sono diminuiti di ben 132 miliardi di euro (-15%). Ma quella è storia. Preoccupa di più quel che sta succedendo negli ultimi mesi, in cui la ripresa si è già manifestata. «Il valore delle nuove operazioni concluse nel secondo trimestre 2017 - si legge nel MarketWatch - evidenzia un ulteriore calo dopo quello del primo trimestre: si tratta del valore più basso dal terzo trimestre 2014. Di conseguenza, i flussi al netto dei rimborsi mostrano un valore negativo di 2,3 miliardi di euro».

Che sta succedendo? Ci sono tre forze in campo, spiega Carmelo Carbotti, Marketing leader di Banca Ifis. Primo: c’è un effetto statistico dovuto al fatto che le banche hanno venduto negli ultimi mesi una trentina di miliardi di euro di Npl, ossia di crediti deteriorati. Tuttavia il grande scalino che ha portato gli Npl lordi a scendere da 192 a 173 miliardi di euro (considerato il complesso delle banche italiane) è avvenuto a luglio. Di conseguenza parte della discesa di giugno si deve a questo (e a maggior ragione la voce peserà nei prossimi mesi) ma c’è anche dell’altro. Un secondo fenomeno in atto, spiegano da Banca Ifis, è che la domanda di credito (certificata dai dati Crif) da parte delle imprese è bassa, perché queste si ritrovano con un livello alto di liquidità. Ma c’è anche un problema dal lato dell’offerta, soprattutto in quelle aree dove le crisi degli istituti di credito sono stati più profondi: la Toscana, il Veneto, ma anche le Marche e l’Abruzzo. Solo i prossimi mesi ci diranno quanto la “cura Intesa” (copyright Repubblica) permetterà un ritorno di credito tra Vicenza e Montebelluna.

L’altra domanda da porsi è se questo buco nel credito possa minare la ripresa in corso. «Le aziende hanno reagito al credit crunch, hanno creato liquidità. Ma una vera ripresa stabile senza un carburante all’economia data dal credito non ci può essere. L’obiettivo della Bce è d’altra parte che il credito riprenda in maniera stabile»: è questo il messaggio che era stato mandato a banche e imprese dall’amministratore di Banca Ifis Giovanni Bossi, all’ultimo Forum Ambrosetti di Cernobbio.

«È un calo drammatico, c’è un credit crunch in corso»
Carmelo Carbotti, Banca Ifis

C’è però dell’altro da raccontare in questo strano stop al credito, che avviene mentre la ripresa è in corso e soprattutto quando da anni la Bce sta pompando liquidità nelle banche, proprio perché facciano prestiti, in un contesto di tassi bassissimi e tassi di depositi nella Bce addirittura negativi. Quel che emerge dall’elaborazione di Ifis è che a scendere sono stati soprattutto i prestiti a breve termine. Il trend storico dal 2013 mostra che i finanziamenti a medio termine (tra 1 e 5 anni) aumentano (+24,6%) mentre sia i finanziamenti a breve termine che quelli a lungo (oltre 5 anni) mostrano una riduzione consistente (rispettivamente del -19,5% e del -15,2%). Al fenomeno ha dedicato alcune analisi Fabio Bolognini, autore del blog Linkerblog e cofondatore della piattaforma di compravendita di fatture Workinvoice. Le spiegazioni date sono diverse. Quella più positiva è che le banche stiano spingendo verso un uso più razionale del credito promuovendo la sostituzione del breve con mezzi più stabili, anche grazie alla spinta degli invencentivi agli investimenti (iperammortamento, Sabatini Ter e altri). Quella più negativa è che in un momento di taglio dei costi il popolo dei bancari, messo sotto pressione per evitare nuovi Npl «preferisce di gran lunga un’unica operazione a cinque anni per, ad esempio, un milione di euro, rispetto a centinaia di anticipi fatture di piccolo importo per garantirsi utilizzi equivalenti a un milione». Altre due concause hanno a che fare con l’utilizzo di fondi a medio-termine della Bce e con protocollo di credito del Fondo Centrale di Garanzia sui prestiti alle Pmi, che privilegia il credito a 3-5 anni rispetto al credito a breve.

Se però il credito a medio-lungo termine cresce, scende quello a breve, soprattutto per le Pmi. Poco male se il calo riguarda le imprese più rischiose: un recente paper, co-firmato dall’economista della Banca d’Italia Emilia Bonaccorsi di Patti, ha certificato come rinnovare i prestiti alle imprese più rischiose sia una scommessa che non paga. Peggio se il calo riguarda anche le piccole imprese non rischiose, come emerge da alcune degli studi sulle Economie regionali della Banca d’Italia (si prenda il caso dell’Emilia-Romagna, pagina 23 dello studio di Bankitalia, o il caso del Lazio). Il motivo per cui questo calo di credito verso le Pmi non va sottovalutato, spiega Bolognini a Linkiesta, è che le piccole imprese sono quelle che sempre più sostengono le filiere, dove le grandi imprese hanno potuto esternalizzare alcuni servizi. Un tipico servizio esternalizzato è quello della logistica, dove le imprese, mediamente piccole e medie, sono pagate a 120 giorni e hanno invece spese immediate, come quelle di benzina e personale. «Finora hanno fatto da banca alle grandi imprese. Se viene a mancare la liquidità, un’impresa piccola prima di prendere una commessa nuova si chiederà se potrà sostenerla a livello lfinanziario», conclude Bolognini.

«Finora le Pmi hanno fatto da banca alle grandi imprese. Se viene a mancare la liquidità, un’impresa piccola prima di prendere una commessa nuova si chiederà se potrà sostenerla a livello lfinanziario»
Fabio Bolognini, Workinvoice

Molto altro è pero uscito dall’Npl Meeting di Venezia. Rispetto all’edizione dello scorso anno le note positive sono state diverse. Si è attestato un primo calo delle sofferenze nei bilanci delle banche italiane. «Siamo a una svolta - ha detto Giovanni Bossi sul palco -. Uno scambio di 100 miliardi di euro di Npl possono essere un obiettivo raggiungibile per il 2017. Di sicuro non chiuderemo l’anno a 50 miliardi». Si è visto, anche plasticamente dalla partecipazione aumentata in sala, quanto sia cresciuto l’interesse dei compratori internazionali verso gli Npl negli istituti di credito italiani. «La presenza di tutti questi testimoni testimonia che l’Italia rappresenta un mercato estremamente importante, sia come fonte di potenziale investimento sia per un discorso di gestione per conto delle banche. Le banche hanno bisogno di qualcuno che le aiuti sia ad eliminare parte delle sofferenze sia a gestire quello che poi rimarrà in pancia», ha commentato Antonella Pagano, managing director di Lindorff/Intrum Justitia in Italia. «Il 2017 è influenzato nei volumi da operazioni enormi, come i “jumbo deal“ di Mps e delle banche venete. Ma la tendenza suggerisce che anche nei prossimi anni il processo di gestione di credito problematico andrà a svilupparsi».

Questo perché nel frattempo - pur nell’emergenza - un mercato italiano dei crediti deteriorati si è formato. Le banche, soprattutto, sembrano in parte emerse dalla storica incapacità nel gestire internamente in modo adeguato le sofferenze bancarie. Molte di loro, come ricordato dagli ad di Banco Bpm e Bper, Giuseppe Castagna e Alessandro Vandelli, hanno costituito delle nuove “workout unit”, funzioni aziendali dedicate al recupero degli asset collegati ai crediti deteriorati. Grazie a una maggiore segmentazione delle pratiche e capacità di classificare i crediti (ogni classe dei quali ha un valore diverso), hanno portato a un aumento dei ritorni tra il 30 e il 50 per cento. Il lavoro sui dati ha permesso di ridurre anche il gap tra domanda e offerta nel prezzo degli Npl: da una parte l’aumento delle coperture da parte delle banche ha ridotto le richieste da parte delle banche, dall’altra le maggiori informazioni hanno ridotto il cosiddetto “sconto ignoranza”, la tendenza a pagare pochissimo pacchetti di crediti raccolti in faldoni cartacei eterogenei.

Le banche stanno quindi risanandosi, sotto la spinta della Bce. Il resto è nelle mani delle istituzioni europee, che per ora si limitano ad annunci fumosi. Il vice-direttore della Bce John Fell ha preannunciato che ci sarà un blueprint europeo, a seguito del quale si potranno costituire delle Asset Management Company nazionali per la gestione dei crediti deteriorati. È la versione resuscitata della bad bank nazionale, che si rende necessaria a causa del fatto che la distanza tra domanda e offerta dei prezzi degli Npl sia da considerarsi un fallimento di mercato. La bad bank nazionale è stata invano a lungo invocata nei mesi della crisi più acuta. Il suo ritorno potrebbe portare le banche a evitare dismissioni fatte in fretta a prezzo di saldo. Ma sui tempi di questa operazione, né sui suoi contorni, non è stato posto alcun punto fermo.

01bank

di Fabrizio Patti

Fonte:http://www.linkiesta.it/it/article/2017/09/19/assurdita-italiane-le-banche-stanno-meglio-ma-non-danno-piu-soldi-alle/35545/

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