Franchising, retail, business
21/09/2017 - Abbiamo tutti un posto preferito dove mangiare oppure, anche se ci siamo andati una sola volta, una cucina dello spirito.
L’attesa è la parte più difficile quando prenotiamo in uno di questi posti, non è per forza una questione legata alla qualità dei piatti, c’è dell’altro. Amiamo i ristoranti che appagano il nostro bisogno di intimità. Non parlo solo di incantevole atmosfera, intimità con il paesaggio, con la cucina, con lo chef.
Un momento, hai detto intimità?
Da qualche anno sono sbucati come funghi, nelle grandi città e nei paesi sperduti, ristoranti con l’esecrabile abitudine di farci accomodare in grandi tavolate, tutti insieme appassionatamente disposti in fila per due.
Intorno, sia di fronte che di lato, emeriti sconosciuti. Che bellezza, due ore faccia a faccia con persone mai viste in vita tua.
È l’insostenibile moda del tavolo sociale, che subiamo tutti perché dire che fa tanto mensa scolastica, in questi tempi di condivisione e socialità, farebbe di noi dei residuati bellici.
Cose che accadono nei ristoranti verso cui saremo ostili per tutto il 2017
L’uso di pranzare tutti allegramente riuniti allo stesso tavolo non è una moda attuale.
Nell’Europa del XVIII secolo era considerata una specie di “equalizzatore sociale”; è stata una tendenza diffusa anche negli USA durante il XIX secolo, in particolare a New York.
Il motivo di tanta fortuna? Il tavolo social non è lì per fare da mediatore sociale ma semplicemente perché conviene.
Ai ristoratori, ovvio, che fanno accomodare due volte il numero di clienti consentito dai tavoli ordinari. Conviene meno a noi clienti, che pigiati come in un monolocale troppo piccolo affollato di studenti, ci ritroviamo a esibire la nostra goffa attività masticatoria al cospetto di un indistinto magma umano pure all’ora di pranzo.
Com’è capitato alla sottoscritta.
Con un’amica che non vedo da anni entro in un ristorante da poco convertito alla moda del tavolo sociale. A mia insaputa, ovviamente.
In breve ci ritroviamo con le gambe sotto un grande tavolo comune, prima vuoto, poi preso d’assalto da commensali accerchianti.
La cosa più imbarazzante è ostentare indifferenza nonostante la prossimità, a 20 centimetri dal naso, con emeriti sconosciuti, in genere imbarazzati quanto te e impegnati a ostentare la tua stessa indifferenza.
Svanita in un amen la speranza di raccontarsi i fatti propri, con la mia amica intavoliamo discorsi banali, fingendo convivialità che non abbiamo né vogliamo con le persone intorno a noi.
Il problema principale del tavolo sociale è che non sei tu a decidere chi si siede accanto, se un piacevole conversatore o il primo stron*o che capita. A noi capita un impiccione.
“Che bello siamo vicini, questo significa che per la prossima ora saremo amici del cuore? ” (No.) “Wow, non vi vedevate da cinque anni?! Quando vi siete conosciute? Siete o non siete super contente? “(Sì, ma non vogliamo parlarne con te.)
Il colmo? Quando l’impiccione chiede senza tanti problemi di prendere una forchettata dal mio piatto offrendo in cambio un assaggio dei suoi spaghetti di soia.
Sto al gioco, finiamo di mangiare alla svelta e usciamo.
Andando a sederci sulla prima panchina per raccontarci i fatti nostri in santa pace. Ritenendoci perfino fortunate, pensa se ci fossero capitati per vicini dei bambini lanciatori di mollica assecondati da genitori permissivi.
La socialità è un piacere, non un obbligo a cui sottostare, mi dispiace per le vostre tasche, intraprendenti ristoratori.
di CINZIA ALFÈ
Fonte:http://www.dissapore.com/ristoranti/odio-il-tavolo-sociale/