Franchising, retail, business
28/05/2018 - Quando si parla di competizione tra nazioni e non mi trovo al bar né allo stadio, mi sento sempre a disagio.
Eppure bisogna dire che la Spagna ci ha superato nel Pil pro capite a parità di potere d’acquisto – d’ora in poi Ppa. Questo è il confronto del reddito di due diversi Paesi calcolato non in termini assoluti ma tenendo conto della diversità del livello dei prezzi di quegli stessi Paesi: ovvero, ciò che si può comprare con quei soldi. È un concetto molto importante. Prendiamo, ad esempio, gli insegnanti del nord e del sud Italia: il loro stipendio è uguale, ma i prezzi sono più alti a Torino che a Ragusa. Non a caso i trasferimenti interregionali di dipendenti pubblici nel nostro Paese sono sempre vissuti con particolare malanimo, ma non divaghiamo. La competizione economica tra Paesi, comunque, non sarà avvincente come quella sportiva, ma può insegnarci qualcosa su ciò che siamo e su dove stiamo andando.
Il primo motivo, il più immediato, del sorpasso è che per vent’anni gli spagnoli hanno corso più di noi. Alla fine degli anni Novanta l’Italia aveva un Pil due volte più grande di quello della Spagna, ora invece è più grande di appena il 50% e nel prossimo quinquennio andrà anche peggio. Come riporta il Financial Times, l’economia italiana è pressoché ferma ai livelli del 2000, mentre i principali Paesi europei sono cresciuti del 25% o più; la Spagna, rispetto a diciotto anni fa, è cresciuta del 35%. Ancora, dal 2000 a oggi, secondo i dati FMI, l’Italia è stata superata nel Ppa anche da Francia, Gran Bretagna, Finlandia, Malta e Islanda. Senza far troppo rumore, entro i prossimi cinque anni si apprestano a fare meglio di noi anche cechi, sloveni e slovacchi. È un segnale d’allarme più sui limiti della nostra politica economica che sui meriti degli altri.
Il referto di una partita che da solo, coi suoi freddi numeri, spiega le ragioni dei vinti e quelle dei vincitori. Ma proprio perché vincere non è l’unica cosa che conta, nascono teorie e interpretazioni che divergono tra loro. Come mai l’Italia sta facendo così male? Ovviamente, l’ipotesi che sia tutta colpa dell’euro va scartata perché noi facciamo parte dello stesso sistema monetario della Spagna. Ci dev’essere qualcos’altro. Il deficit. “Sì, la Spagna cresce perché fa deficit, mentre noi siamo sottoposti a vincoli ingiusti, che ci impediscono di spiccare il volo.” Stiamo parlando della narrazione che vede nell’accrescimento del deficit un fattore di per sé positivo per la crescita economica: secondo questo pensiero, grazie a una maggiore spesa da parte dello stato, la domanda di beni e servizi si espande. A quel punto il cosiddetto “effetto moltiplicatore”, reso celebre dalle teorie keynesiane, fa salire il Pil, ripagando così i debiti accumulati col maggiore deficit. Un vero circolo virtuoso, che si consolida in una tiritera comune a quasi tutte le forze politiche presenti alle ultime elezioni: “Il problema è l’Europa, che non ci fa spendere abbastanza soldi.” È in questo contesto che si inserisce la fascinazione per la Spagna: una costante che va da Matteo Renzi a Matteo Salvini, passando per Luigi Di Maio.
Se l’ex-segretario del Pd, per un breve periodo, aveva utilizzato Madrid come modello – salvo poi ricredersi e sostenere che la Spagna era messa peggio di noi e che comunque cresceva solo grazie al deficit – i leader del Movimento Cinque Stelle e della Lega, al tempo in cui erano all’opposizione, hanno dichiarato di ispirarsi al primo ministro spagnolo Mariano Rajoy, che concede al suo popolo più deficit e dunque più investimenti – per cosa non era specificato. Salvini si era espresso così al meeting economico di Cernobbio, lo scorso settembre: “Come ho educatamente ricordato, due anni fa sono stato guardato come un marziano perché contestavo l’austerità che uccide i Paesi. E oggi, la Spagna cresce portando il deficit al 5 per cento.”
Entrambi hanno portato in Parlamento ministri e consiglieri, come Alberto Bagnai, che vorrebbero indebitarsi sì, ma senza nemmeno escludere del tutto un’uscita dall’euro. E nessuno sembra in grado di opporsi a questo diffuso sentimento popolare.
Questa è una narrativa potente, proprio perché non è del tutto falsa. Prese singolarmente, le parti che compongono questo assioma anti-euro e pro-deficit non sono liquidabili o confermabili con un’affermazione netta: si può benissimo far crescere l’economia indebitandosi e si può criticare il modo in cui è stata gestita l’austerity in Europa fino a questo momento; si può persino fare bene fuori dall’euro e all’interno dell’Unione europea. È nell’insieme che i conti non tornano. I punti bisogna saperli collegare, ogni storia è diversa dall’altra, e cause e concause vanno analizzate senza ricorrere a semplificazioni eccessive o formule stregonesche. C’è una parte di verità nella storia del debito spagnolo. Nel senso che la Spagna un deficit pubblico di tipo keynesiano – come piacerebbe a Bagnai – l’ha fatto, ma soltanto nel 2009.
È solo tra il 2008 e il 2009 – vale a dire all’insorgere della crisi dei subprime americani poi trasmessa all’Europa – che la spesa pubblica corrente ha un’impennata considerevole; così, il deficit spagnolo aumenta fortemente, passando dal 4,4% all’11%. Vedremo in seguito il perché di questa spesa tutta concentrata, si può dire, in un solo anno. Nei tre anni successivi al 2009 il deficit è rimasto stabile, poi dal 2013 ha iniziato a scendere, fino ad arrivare attorno al 3,1% nel 2017. La fatidica del 3 per cento imposta da Maastricht sarà raggiunta solo quest’anno. Vi chiederete perché agli spagnoli sia stato concesso di sforare quel parametro, mentre da noi si faceva “macelleria sociale” per rispettarlo. Per un semplice motivo: quello che conta per i famigerati “burocrati di Bruxelles”, nonostante la vulgata comune, non è tanto il parametro da rispettare in sé, ma l’andamento.
Da un lato, il governo spagnolo a partire dal 2015 ha sbloccato (leggermente) la spesa pubblica – in valore nominale all’incirca del 3% l’anno – ma, dall’altro, il Pil ha fatto ancora meglio, con una crescita trimestrale mediamente di un punto superiore al debito. Il risultato è stato che negli ultimi otto anni il rapporto deficit-Pil spagnolo è costantemente calato in termini assoluti. In Italia, nel frattempo, i governi Monti-Letta-Renzi hanno portato il rapporto debito-Pil dal 120 al 131%, senza aver dato segni di ripartenza dell’economia. Probabilmente gli spagnoli, a differenza nostra, hanno saputo sfruttare meglio l’indebitamento. È il tasso di crescita e il livello di tassi d’interesse ciò che veramente dà garanzie a Bruxelles: quando queste condizioni sono buone, gli eurocrati non sono poi così rigidi con chi supera la soglia del 3%.
Questo però non squalifica sempre e comunque la teoria keynesiana. Se nel breve periodo – soprattutto all’indomani di crisi catastrofiche come quella del 1929 o del 2008 – l’intervento pubblico massiccio può gonfiare la crescita, alla lunga l’economia reale riprende il sopravvento e sgonfia la bolla creata dal denaro stampato o preso in prestito. La svalutazione dei salari reali rischia di diventare una droga. La cosa interessante è che mentre la Spagna ha iniziato a ridurre il rapporto debito-Pil – passando dal 99,8% del 2016 al 98,9% del 2017 – il Pil è aumentato costantemente, fino a raggiungere un tasso di crescita doppio rispetto a quello italiano. Più che essere stato il deficit a condurre alla crescita, quindi, è stata la mancata crescita ad aver portato a un aumento del deficit.
A questo punto i keynesiani integralisti potrebbero insistere: d’accordo, il debito in Spagna sarà anche diminuito, ma nel 2013, quando l’economia ha iniziato a riprendersi – più e meglio di altri grandi Paesi europei – era comunque oltre il 100 del Pil. Ben al di sopra della soglia del 60% imposta dal Patto di stabilità. Sì, ma attenzione: la situazione della Spagna ai blocchi di partenza era diversa. Nel 2007 aveva un rapporto debito pubblico-Pil al 36%; l’Italia, al 103%. A voler essere più precisi, la crescita più sostenuta dell’economia spagnola si è avuta dal 1998 al 2007, proprio quando il livello del deficit spagnolo era inferiore a quello italiano. La Spagna, per ripartire dopo il 2008, ha quasi triplicato quella cifra, ma ha potuto concedersi più libertà di manovra, mentre noi eravamo già ai piedi di Pilato. Quel che più conta è che la libertà concessa alla Spagna, in termini di maggiore spesa pubblica dal 2016 a oggi, sia stata ripagata. In Italia, non ha sortito quasi alcun effetto: i nostri consumi sono deboli, il credito concesso dalle banche, pure; il Pil cresce molto meno che negli altri Paesi, e soltanto grazie al famoso export che sarebbe, secondo i nemici giurati dell’euro, penalizzato dalla moneta unica.
Dicevamo prima dell’enorme spesa pubblica del 2009 in Spagna. In quell’anno, immediatamente successivo al crollo di Lehman Brothers, il governo di Madrid prese atto delle condizioni pietose del proprio sistema bancario, pieno di crediti inesigibili, e iniettò 40 miliardi di euro di soldi pubblici per creare un fondo ristruttura-banche: fu un bagno di sangue (innumerevoli sportelli e una trentina di banche chiuse) ma alla fine il sistema è stato risanato e messo in condizioni di erogare credito a famiglie e imprese. Dunque, più investimenti. Allo stesso tempo, però, l’indebitamento privato si è andato riducendo sempre di più, passando in dieci anni dal 200% al 100% del Pil.
In Italia, nello stesso periodo, l’allora ministro delle Finanze Giulio Tremonti si preoccupava di rassicurare gli elettori sulla solidità delle nostre banche, ma nel frattempo creava le condizioni per ciò che veramente interessava al centrodestra e non solo: poterle controllare. E qui tocchiamo la componente non strettamente economica, o numerica, del sorpasso: il meccanismo di poteri pubblici più inaffidabile che l’Italia si ritrova; paralizzato, asfittico, ossessionato con il clientelismo e la burocrazia. Morale della favola? Mentre le banche spagnole sostenevano la ripresa, il Monte dei Paschi di Siena si apprestava ad andare a rotoli, grave presagio del fallimento di Banca Etruria, che sarebbe scoppiato in mano a Renzi nel 2016. La via d’uscita italiana dalla crisi appare tuttora debolissima e questo fallimento non potrà essere cancellato dalla precedente legislatura. Il fantomatico aumento dell’occupazione dovuto alla legge Fornero resta fragilissimo e con un numero record di italiani che emigrano all’estero.
La cosa più dolorosa da ammettere è che la Spagna è stata tirata fuori dal pantano sotto le randellate della troika: proprio i supervisori dei conti che l’Italia, al contrario della Spagna, era riuscita a evitare col governo Monti, anche se non era andata bene. I famigerati “sicari dell’economia globale” hanno imposto ai cittadini spagnoli riforme davvero durissime, come quella sul lavoro del 2012, a confronto della quale il Jobs Act è un timido saggio scolastico: si trattava di misure che puntano a una flessibilizzazione estrema, con liquidazioni più basse per i licenziamenti illegittimi, licenziamenti più facili per motivazioni economiche, una maggiore priorità alla contrattazione settoriale o territoriale rispetto a quella collettiva.
Era però sconcertante che la disoccupazione ad altissimi livelli – ben oltre il 20% – sembrasse diventata davvero strutturale; oggi invece risulta ai minimi da nove anni, e continua a scendere. E gli utili delle aziende si stanno pian piano trasformando in investimenti, anche se piuttosto lentamente. Oltre a questo, e al taglio della spesa pubblica, soprattutto nel periodo 2010-2013, la troika ha anche imposto la diminuzione della pressione fiscale sui redditi da lavoro, permettendo al tempo stesso un abbassamento dei salari reali pur di venire incontro alla crisi e favorire le esportazioni. Sono due le verità che non dicono, dunque, i populisti ammiratori del modello spagnolo: la prima è che la ripresa della Spagna non è avvenuta per chissà quale miracoloso stato spendaccione, ma per una vera e propria cura da cavallo; la seconda è che è stata tutto tranne che un esempio di sovranismo. Ma se fosse proprio questa ambiguità un esempio che i populisti vogliono seguire?
L’ultima domanda che resta da farci è se il sorpasso spagnolo sia soltanto temporaneo, oppure destinato a durare. Guardando la struttura demografica, non c’è da essere ottimisti, in Italia: l’impatto dell’immigrazione da noi è ancora limitato, mentre in Spagna sta aiutando la popolazione a ringiovanire e al sistema pensionistico a non collassare. In Spagna ci sono più disoccupati, ma grazie agli stranieri e alle donne c’è una maggiore popolazione attiva in età da lavoro. E il tasso di disoccupazione si sta abbassando più velocemente. Certo, c’è ancora il problema catalano da risolvere, e la repressione di questi mesi ha sconvolto il mondo per la sua brutalità; la polizia spagnola è particolarmente nota per la sua violenza nel reprimere le proteste. In questo si nota la differenza dei due sistemi sociali: più frantumato quello italiano, e lo si è visto storicamente nei partiti; più centralizzato e nazionalistico quello spagnolo, con tutto ciò che ne consegue. I gruppi sociali in Spagna si riuniscono su seri progetti di riforma anche su base identitaria territoriale: da noi, il nord ha dato le chiavi del Paese a un partito spregiudicato come la Lega; il sud, economicamente conta quasi zero e dà il suo voto ai Cinquestelle.
La storia del sorpasso, come vedete, ci parla più dei demeriti dell’Italia che dei meriti della Spagna. La crescita economica italiana non solo non è soffocata da un euro forte o dai parametri europei, che pure possono, e forse devono, essere rimessi in discussione, ma senza dimenticare l’importanza di un buon utilizzo della macchina dello stato; ma ci dice anche che il modello che ci ha appena superato è un modello straordinariamente feroce, quasi inimmaginabile in un Paese anchilosato come il nostro. Come ha detto al Financial Times Dietmar Hornung, manager che lavora presso l’agenzia di rating Moody’s: “Una è una economia post-bolla speculativa, l’altra un’economia altamente indebitata e a crescita lenta. La prima tipologia tende a essere più volatile, ma ha il potenziale per riprendersi più velocemente.” Politicamente, il sorpasso è un risultato innegabile per la politica mainstream di Madrid, che non a caso, nonostante l’austerità imposta agli elettori, può permettersi di battere i pugni sul tavolo di Bruxelles e tenere alla larga le tentazioni gentiste. Per il momento. Chissà quanto durerà.
Il dato di fondo, comunque, non è che di “fare deficit” non si può parlare: è che il deficit spagnolo è servito davvero a qualcosa, a differenza del nostro, ma non va mitizzato. Nel complesso, l’economia italiana resta al momento più forte, ma ha problemi strutturali difficilmente risolvibili ed è ancora in declino. Le generazioni dai quarant’anni in giù sembrano oggettivamente fregate. Comunque vada, l’ondata populista non sarà un viaggio facile. E quello che sta capitando al nostro Paese, paradossalmente, può essere utile agli spagnoli: il monito è che se le classi dirigenti non fanno riforme adeguate durante i periodi di bonaccia, se il ceto politico europeo non decide di mettere mano al disastro e di affrontare le prossime crisi sistemiche, il malato continentale che è l’Italia potrà contagiare altri. Ma in questo scenario l’Europa è tragicamente silente, con i suoi leader che giocano pericolosamente con il fuoco.
DI PAOLO MOSSETTI
Fonte:https://thevision.com/attualita/spagnoli-italiani/
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