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Troviamoci al mercato

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Storia di un imprenditore che, grazie al cibo e all’arte, fa rinascere spazi abbandonati nelle grandi città. E crea mercati. Umberto Montano parte da Stigliano, un paesino vicino a Matera, con il sogno di conoscere il mondo attraverso il cibo. Prima insegna, poi avvia un ristorante di successo, infine realizza mercati per gli artigiani del gusto.

Immaginate un luogo di incontro e scambio, dove gli artigiani portano la propria sapienza del fare, materie prime del territorio e di qualità, i loro prodotti. E la gente chiede, confronta, mangia o compra quello che metterà in tavola sul luogo o a casa propria. Non è una piazza medievale, ma è un progetto nuovo che è diventato realtà. Un’idea attuale e antica insieme: reinventare i mercati in città e farne centri di promozione artigianale e culturale. Il “Mercato Centrale” l’ha ideato Umberto Montano, imprenditore della ristorazione. Con la sua Caffè italiano Holding, insieme con Claudio Cardini e il Gruppo Human Company (settore ospitalità), ha fondato la MercatoCentrale holding, che negli ultimi cinque anni ha aperto Mercato Centrale a Firenze, Roma, Torino e sta affrontando anche Milano. Progetti ambiziosi che sono diventati realtà e danno lavoro a centinaia di persone. Millionaire lo ha intervistato.

Che cosa ha fatto di lei l’imprenditore e l’uomo di oggi?

«Sono un sognatore di nascita. Vengo da una terra che il sogno lo incoraggia, perché nasce dalla privazione. In un piccolo paese della montagna materana, il mio sogno era conoscere il mondo. Ed era l’appiglio più forte per partire, andare a cercare luoghi nuovi. Ho fatto studi alberghieri perché mi davano l’opportunità di lavorare in giro. A 13 anni potevo muovermi e fare esperienza. Sono stato cameriere, barista… Ho capito che volevo fare cose, farle bene per dare piacere a me e a chi ho attorno, a cominciare dai i clienti, ma anche quelli che collaborano con me. Mi sono ritrovato ad avere occasioni, conoscere persone. Quando le opportunità si sommano al sogno, all’impegno, al crederci, i risultati si ottengono. E fai cose per superare la mediocrità. Bisogna metterci cura, cioè amore e discrezione».

Quando è diventato imprenditore?
«Prestissimo. Intraprendere, per me, significa provare, rischiare, avere qualcosa di mio, per fare quello che sento. Io sono un “imprenditore artigianale”, provo soddisfazione a fare le cose direttamente. Stare sul pezzo, insomma. Oggi molti sono imprenditori globali, coordinano e gestiscono progetti colossali. Io non sono così. Il mio primo ristorante l’ho aperto a 21 anni, in Basilicata, la terra che aveva alimentato il mio sogno. Ero già padre, avevo bisogno di guadagnare per mantenere la mia famiglia. Ho concentrato tutte le mie ambizioni in un pub. Purtroppo fu preso di mira da bulli di paese: minacce, paura. Me ne andai. A Firenze trovai lavoro come insegnante nella scuola alberghiera. Ero messo peggio di quelli con le valigie di cartone: avevo buste di plastica e disperata necessità di arrotondare. Per questo, nel 1983, ho aperto il mio primo ristorante, nella taverna Michelangelo, frequentata da allievi carabinieri di una vicina caserma».

E i soldi per iniziare?

«Mi servivano 30 milioni di lire. Me li diede uno strozzino. Rischiai, con incoscienza assoluta, ma ho restituito 45 milioni entro l’anno. Furono anni di grandissimi sacrifici, fino al 1991, però il ristorante Alle Murate ha avuto una crescita incredibile, tanto che l’ho trasferito in un posto più adatto: un palazzetto del 300, che era stata la sede dell’Arte dei giudici e dei notai, dimenticato e trascurato nei secoli. Sono stato io, nel 2005, a restaurarlo, scoprendo un ciclo di affreschi del ‘300, che comprende i ritratti di Dante, Petrarca, Boccaccio».

È scoppiata lì la passione per l’arte che ha portato a un mercato dove si fa anche cultura?

«Non sono un intellettuale, ma sono attratto dalle cose belle, perché rendono migliore la
vita. Non è vero che con la cultura non si mangia. E costruire progetti imprenditoriali collegati alla cultura dà soddisfazioni impagabili. Per i restauri di Alle Murate mi sono indebitato. Ma ne valeva la pena. E il successo del ristorante mi ha ripagato».

Perché ha deciso di creare il Mercato Centrale? Dove è scoccata la scintilla?
«A Firenze, il sindaco Matteo Renzi indisse una gara per rivalutare il primo piano del mercato di San Lorenzo, che era in forte degrado e danneggiava gli operatori del piano terra, ormai disperati e critici. Fu proposto a Farinetti di Eataly, che disse no, che non ci avrebbe cavato un ragno dal buco. Del suo scarto, ho fatto la sintesi della mia vita e del mio lavoro. Il mio sogno era rimettere al loro posto i protagonisti, quelli che sono la grande risorsa della cucina italiana. È la prima nel mondo. Le radici della nostra cucina sono nelle case, nei riti dei pranzi domenicali in provincia, quelli dove tutti possiamo offrire cose buone, grazie agli ingredienti di qualità e al lavoro di macellai, salumieri, panettieri, pastai, pasticcieri, gelatai… Questi artigiani sono in crisi, perché non possono più permettersi di pagare gli affitti in centro città, ma sono risorse incredibili. Ho pensato di creare uno spazio organizzato in botteghe dove loro potessero offrire i loro prodotti. Tre gare andarono deserte, poi ci presentammo noi e ci aggiudicammo il bando».

Chi si è occupato della ristrutturazione?

«Ho coinvolto un mio caro amico, Claudio Cardini, che aveva esperienza nella creazione di spazi e strutture. L’ho portato a vedere l’area. Era domenica, non c’era nessuno. Ha misurato a passi la superficie. “Più di 3.000 metri” ha detto. “Io ci sto”. Ci abbiamo messo i nostri capitali e quelli di una banca, il Credito Cooperativo di Signa, che ci ha prestato i soldi in cambio della presenza nel mercato».

Il Comune vi ha aiutato?

«Ci ha agevolato al massimo con tutte le pratiche burocratiche. È stato fantastico, un rapporto esemplare tra pubblico e privato».

Tempi di realizzazione?
«Nel 2012 abbiamo iniziato a progettare. A inizio 2013 ci siamo aggiudicati la gara. La realizzazione tra novembre 2013 aprile 2014. I lavori sono stati impegnativi: l’investimento (Stazione Centrale, 4.400 mq) si aggira sui 5 milioni di euro».

Gli artigiani coinvolti partecipano con quote societarie?

«No. Siamo noi a investire, a realizzare le botteghe e selezionare chi ci entra. Gli artigiani scelti pagano con una partecipazione ai proventi».

Il business funziona?

«A Firenze, il primo anno di attività abbiamo registrato 2 milioni di ingressi (più della Galleria degli Uffizi), nel 2018 siamo arrivati a 3,5 milioni di ingressi».

Da Firenze a Roma e a Torino: come avete fatto?
«A Roma, abbiamo trattato direttamente con Grandi Stazioni. Non è stato semplice. Ma Grandi Stazioni ha dimostrato apertura all’innovazione e ha capito che potevamo dare valore a un’area morta. Ricordo ancora il rimbombo tetro dei passi nella galleria, deserta prima che cominciassero i lavori. Ora ci passa una folla e nel Mercato Centrale di Roma registriamo 3 milioni di ingressi l’anno. A Roma abbiamo investito circa 5 milioni di euro, mentre a Torino l’investimento è stato più impegnativo, perché abbiamo ripianato il debito con lo Stato della cooperativa che gestisce il Pala-Fuksas. Però potremo occupare lo spazio per 99 anni e non pagheremo l’affitto».

E Milano?

«Ci stiamo lavorando. L’apertura avverrà nella prossima primavera. Sarà ancora più costoso. Il nostro interlocutore è sempre Grandi Stazioni, che deve mettere a reddito gli spazi. La location è nella Stazione Centrale. Milano tiene in movimento il mondo».

Non temi la concorrenza di Eataly?

«Apparteniamo allo stesso filone, ma non siamo competitor. Nutro profonda stima per Oscar Farinetti, è stato il primo a proporre cibo italiano al mondo. Ha qualificato l’attività della grande distribuzione. Entrambi abbiamo portato avanti un’operazione positiva. Ma Eataly è un gigante, noi una briciola nel mondo. Non siamo paragonabili per dimensioni e obiettivi».

Chi lavora con te?

«La persona più importante è mio figlio Domenico. È il direttore generale, ma anche colui che rende le attività culturali una realtà. E sono quelle che marcano la differenza di tutto il progetto. Concerti, conferenze, progetti di arte contemporanea di rilevanza internazionale».

Nuovi artigiani possono entrare nei Mercati?

«Sì, ma non c’è grande turnover. Quando le botteghe funzionano, gli artigiani non se ne vanno. Ci sono però opportunità per tanti professionisti. Il mio team di lavoro è composto da 20 persone. In ogni mercato lavorano centinaia di persone. A Milano ci saranno 300 attività lavorative. Un terzo saranno dipendenti diretti, che gestiranno il mercato. Noi siamo il pilota, gli artigiani il motore».

Che consiglio daresti a un giovane?

«Sull’insegna, mettete il vostro nome e cognome».

Tratto da Millionaire di ottobre 2019. Per acquistare l’arretrato scrivi a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Fonte:https://www.millionaire.it/troviamoci-al-mercato/#!


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